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Tutti al primo banco

Gaia Manzini

Nell’èra delle videochiamate, tra Zoom e Skype, conta solo quello che c’è nell’inquadratura. E quello che il professore riesce a vedere

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Consegnami il mazzo di carte, mi ha intimato il professore. Non ho nessun mazzo di carte, mi sono difesa con le mani che sudavano. Sul mio banco c’era il Castiglioni-Mariotti, il dizionario di latino, che sembrava la fortificazione medievale di un castello di carta. Di fianco, un paio di manuali. Rimaneva ben poco spazio per scrivere, così tenevo il quaderno sulle gambe. Incastrato tra l’astuccio e il Castiglioni-Mariotti in effetti c’era un piccolo mazzo di carte, di quelli che si possono stringere in un palmo della mano. Era talmente piccolo che non poteva essere avvistato dietro la mole del dizionario, eppure. Il mazzo lo avevamo comprato io ed Elena per portarlo a scuola e a ricreazione applicarci in quei solitari che, a detta sua, servivano a propiziare i nostri desideri di adolescenti: ci inviteranno a quella festa? Simone e Alessandro ci chiederanno di uscire? Riusciremo a non essere rimandate? Ci affidavamo alle carte perché non sapevamo ancora affidarci a noi stesse. Avevamo bisogno di risposte. Vivere nell’incertezza ci disorientava, perché di noi e del mondo non sapevamo ancora niente.

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Consegnami il mazzo di carte, mi ha intimato il professore. Non ho nessun mazzo di carte, mi sono difesa con le mani che sudavano. Sul mio banco c’era il Castiglioni-Mariotti, il dizionario di latino, che sembrava la fortificazione medievale di un castello di carta. Di fianco, un paio di manuali. Rimaneva ben poco spazio per scrivere, così tenevo il quaderno sulle gambe. Incastrato tra l’astuccio e il Castiglioni-Mariotti in effetti c’era un piccolo mazzo di carte, di quelli che si possono stringere in un palmo della mano. Era talmente piccolo che non poteva essere avvistato dietro la mole del dizionario, eppure. Il mazzo lo avevamo comprato io ed Elena per portarlo a scuola e a ricreazione applicarci in quei solitari che, a detta sua, servivano a propiziare i nostri desideri di adolescenti: ci inviteranno a quella festa? Simone e Alessandro ci chiederanno di uscire? Riusciremo a non essere rimandate? Ci affidavamo alle carte perché non sapevamo ancora affidarci a noi stesse. Avevamo bisogno di risposte. Vivere nell’incertezza ci disorientava, perché di noi e del mondo non sapevamo ancora niente.

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Quello che sapeva tutto era il professor P. Era il docente che passava più tempo con noi: insegnava italiano e latino. Sapeva che giocavamo a carte, sapeva che al pomeriggio andavamo al parco con gli amici, che il sabato sera uscivamo a mangiare la pizza, che leggevamo Cioè e Top Girl; sapeva anche se qualcuno ci aveva fatto soffrire. Non lo diceva esplicitamente, si limitava a essere meno severo nelle interrogazioni. Se traducevo male un ablativo assoluto, mi suggeriva la risposta con un mezzo sorriso. Erano i tempi in cui sedevo al primo banco e il professor P. era un preveggente. O forse si trattava solo di prospettive. Stiamo tutti tornando al primo banco: ecco quello che sta accadendo in questo periodo. Zoom, Meet, Teams e le altre piattaforme che utilizziamo per presenziare a una riunione di lavoro, a una plenaria scolastica, a una lezione di inglese via remoto, hanno rivoluzionato il nostro modo di sederci intono a un tavolo. Non esistono più gerarchie spaziali: non c’è più un capotavola per il capo, non più i fedelissimi che sono al suo fianco. Nelle griglie in cui è suddivisa la schermata appariamo uno di fianco all’altro; ingrandito, di solito, è solo chi prende la parola. Eppure, per quanto più democratica e orizzontale, è una modalità che ci incute una sottile angoscia.

 

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Non è più possibile partecipare a un incontro e distrarsi senza essere visti; non è possibile bere, giochicchiare con una penna o un pezzo di carta, grattarsi la testa o il naso, senza che tutti lo notino. E’ come essere al primo banco sempre; tornati a scuola e in prima fila. Anzi peggio: è come essere osservati senza tregua, come le ancelle nella repubblica di Gilead nel celebre romanzo di Margaret Atwood. E se, come Ragle Gumm nel romanzo di Philip Dick Il tempo si è spezzato, scoprissimo di aver vissuto mesi in un mondo fittizio, ricreato al solo scopo di registrare ogni nostra singola azione, grazie a un uso sconsiderato e dilagante di telecamere che azioniamo sempre di nostra volontà? E se d’un tratto facesse irruzione in casa nostra la Psicopolizia di George Orwell? In questi mesi si è spesso associata l’atmosfera dell’emergenza pandemica a una distopia, si è spesso parlato di preveggenza degli scrittori. Ma se di distopia si tratta, si tratta anche di rappresentazione metaforica di quello che succede alla nostra autopercezione in un tempo nuovo, diverso, obliquo.

 

Alex Portnoy – il personaggio che ha dato la notorietà a Philip Roth – si masturbava prima dei pasti, dopo i pasti, durante i pasti. Bastava alzarsi da tavola a metà della cena fingendo un mal di pancia improvviso e gridando “diarrea!”, per chiudersi in bagno e lì fare quello che si era prefissato grazie alla provvida presenza di una mutandina o di un reggiseno della sorella. Mentre Portnoy era chiuso in bagno, la madre bussava insistente: “Si tratta solo delle patatine, tesoro, o c’è dell’altro? Per piacere, dimmi quale altra spazzatura ti cacci in bocca, così veniamo a capo di questa diarrea!”. Masturbarsi durante la cena per Philip Roth ha effetti esilaranti, ma è possibile perché Alex si è chiuso in bagno, si è sottratto allo sguardo della sua famiglia e del mondo. E’ quello che incautamente non ha fatto – qualche tempo fa – Jeffrey Toobin, un giornalista del New Yorker e commentatore della Cnn. Durante una videochiamata pubblica di lavoro, si è cimentato in una coreografia degna di Portnoy dimenticandosi di chiudere la telecamera e trasformando così un gesto privatissimo in oggetto di discussione in tutto il mondo. E ancora: maggio 2020, i Consiglio Comunale di Oristano si riunisce in smart working. La schermata a griglia di Zoom riproduce tutti i primi piani dei consiglieri. Tra questi c’è anche il revisore dei conti. La riunione si protrae per sette ore, sette ore per discutere il bilancio di previsione. Il revisore che dovrebbe aiutare la giunta a scrivere la manovra economica, si alza, con gesti veloci si toglie i pantaloni e li appoggia da qualche parte, fuori dall’inquadratura. Si sfila la camicia, rimane parzialmente a torso nudo, poi si sistema la maglietta bianca; infine indossa il pigiama. Il tutto continuando a guardare lo schermo, forse pensando di avere la telecamera chiusa o di passare inosservato. Le telecamere aprono una finestra sul nostro privato.

 

L’inquadratura è un zona di confine tra la vita domestica e una parentesi lavorativa. E’ difficile isolare gli sfondi impropri – in alcune di queste riunioni ho scorto ninnoli raccapriccianti, panni stesi, perfino una cabina armadio, nel senso che per partecipare a una riunione qualcuno si era chiuso tra giacche e pantaloni appesi, forse per trovare un po’ di privacy –; è difficile evitare che il privato irrompa in una sfera che non è più privata seppur domestica. Durante una riunione scolastica – all’epoca del primo lockdown – si sono sentite le imprecazioni di un marito che passava in quel momento in corridoio, mentre la moglie parlava con le insegnanti. Un amico giornalista mi ha raccontato che il direttore di un grande quotidiano italiano, in un’epoca pre-Zoom e pre-social, era solito dormire in ufficio quando la chiusura si protraeva oltre il dovuto. Tutta la redazione ammirava tanta devozione alla causa del giornale. Il direttore aveva sistemato un divano letto in un angolo del suo ufficio, corredato di comodino ed effetti personali per la notte. Una mattina, sul presto, qualcuno si presentò in redazione per intervistarlo. Il direttore, impeccabile in giacca e cravatta, rispose a tutte le domande seduto dietro alla sua scrivania: un mezzo busto perfetto, la solita finezza retorica, la gentilezza dei modi. Quando gli chiesero di alzarsi per poter fare qualche foto a figura intera, il direttore rifiutò. “Non posso”, disse, “sotto sono in pigiama”. Conta solo quello che c’è nell’inquadratura. Ciò che il professore riesce a vedere, anche se siamo seduti al primo banco. Quello che decidiamo di mostrare, anche se siamo continuamente osservati sullo schermo di un computer. Avere la piena coscienza delle proprie espressioni è diventato cruciale.

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E’ la nuova sfida per tutti. Anna Karenina avrebbe dovuto saperlo. Non dice mai di amare Vronskij anche se tutti sanno della loro relazione, molte sono le chiacchiere che girano sul loro conto e Karenin, il marito di Anna, ne è infastidito. Tutto si gioca su quanto è lecito mostrare e quanto invece si riesce a nascondere con l’ipocrisia. Una manifestazione plateale di sentimenti sarebbe imperdonabile. Poi però a un certo punto succede, e la storia di Anna inizia il suo lento declino. Vronskij va da Anna prima della sua gara di cavalli. Nel giardino di casa lei gli comunica di essere incinta. Non è chiaro che effetto faccia questa notizia al conte Vronskij, lo seguiamo semplicemente andarsene e recarsi all’ippodromo per gareggiare. Lo vediamo in sella a Frou Frou. E’ un giovane pieno di ardore, di voglia di vincere. Sprona la cavalla più che può, poi però qualcosa lo tradisce, e noi continuiamo a chiederci se non sia per colpa di quello che gli ha detto Anna. All’ultimo ostacolo Vronskij compie un’imprevista torsione del busto e cade a un passo dal traguardo. La sua cavalla è spacciata, rimane a terra con la schiena spezzata. Anna è sugli spalti; Anna che a sua volta è osservata da Karenin, sopraggiunto anche lui per controllare i movimenti della moglie. Le cadute dei cavalieri sono state tante. C’è un clima di tensione nell’aria e nessuno si sorprende dell’ennesimo incidente, quello di Vronskij. Nessuno tranne Anna che manda un grido d’apprensione. Si alza in piedi con uno scatto e con la faccia sconvolta. Con movimenti frenetici comincia a chiedere a tutti, da quella distanza non riesce a capire la dinamica dell’incidente e ha paura che a Vronskij sia successo qualcosa di terribile. Quando qualcuno la informa che a farsi male è stata solo la cavalla, lei si nasconde dietro il ventaglio, e si scoppia a piangere. E’ bastato quell’episodio per tradire tutti i suoi sentimenti davanti alla società e davanti a Karenin. Sì, l’impassibilità è la nuova frontiera a cui siamo chiamati, un’abilità che diventa professionale.

 

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C’è una scena bellissima nel Divo, il film che Sorrentino ha girato sulla figura controversa di Giulio Andreotti. Il Parlamento è riunito per eleggere il presidente della Repubblica. E’ il 1992, i deputati osservano un minuto di silenzio per Giovanni Falcone, poi si passa allo spoglio dei voti. E’ il momento che Andreotti ha aspettato per tutta la vita ma se ne sta lì immobile, la testa incassata, le mani giunte davanti al busto, la faccia priva di espressione. Vince Oscar Luigi Scalfaro con 672 voti. Ma non è questo l’importante; importante è che Andreotti ha perso ottenendone solo 6. E’ una sconfitta epocale, e umiliante. Vittorio Sbardella, impersonato da Popolizio, commenta tutta la scena con il deputato in piedi di fianco a lui. Guarda, gli ripete, guarda Andreotti. Continua a osservarlo anche quando si alza in piedi e applaude Scalfaro come se nulla fosse, come se si trattasse di ordinaria routine. Guarda, dice ancora Sbardella al deputato. Guarda e impara come si sta al mondo. Ore e ore di riunioni davanti al pc. Il lockdown è questo essere incatenati alla sedia di casa. La tentazione quasi insopprimibile è quella di scappare. Abbiamo sempre un’opportunità di scelta: spegnere la telecamera, invocare un momentaneo guasto e intanto far sentire solo la nostra voce. La fuga, l’invisibilità è sempre una forma di potere, un modo per esserci senza esserci davvero. Se invece voglio presenziare, rimane il problema di simulare attenzione, di studiare un’espressione e una postura da “piano di ascolto”.

 

Ogni volta che guardo un talk show politico osservo i piani di ascolto degli invitati: i migliori sono sempre quelli che riescono a rimanere attenti ma inespressivi; quelli che non rivelano, se non al momento di prendere la parola, il proprio pensiero. Anche se poi, il proprio pensiero, è bene saperlo, passa da altri canali. C’è chi usa le mani, congiungendole in un cuneo verso l’alto o verso il basso e trasmette così un senso di superiorità. Se il cuneo si trasforma un una freccia si sta vivendo con fastidio il non potersi esprimere liberamente, e allora tanto vale trasformare la freccia in una pistola. Se le mani stanno intrecciate davanti al mento è segno di tensione; se sono intrecciate ma appoggiate al tavolo si comunica rassegnazione; se invece le dita prendono a tamburellare è un modo per far capire a chi sta parlando che siamo stufi, non ce la facciamo più. E ancora, se muoviamo gli occhi a destra e a sinistra, stiamo esprimendo interesse per quello che stiamo ascoltando; se allarghiamo lo sguardo invece sono le immagini evocate a colpirci… Il fatto di essere dentro a una telecamera, seppur in smart working, fa di noi dei soggetti mediatici anche se non lo siamo mai stati prima.

 

Quando ero al primo banco e durante le lezioni di latino rischiavo sempre di perdere il filo, avevo escogitato di tenere lo sguardo fisso, non tanto sul professore quanto su un calendario che c’era dietro la cattedra. Mi cimentavo in una specie di fissità ipnotica al solo scopo di simulare un ascolto meditativo, quando in realtà stavo solo pensando a Simone che non mi telefonava più. Ed è quello che mi succede ancora adesso davanti a Zoom, quello che sospetto succeda a tutti: non sapendo bene come comportarmi, finisco per fissare qualcosa. Fisso di continuo la mia immagine riprodotta in uno dei tanti quadratini. Mi dimentico di tutti gli altri, mi dimentico anche di quello che sto dicendo io: parlo e mi guardo parlare. Aggiusto la telecamera, mi sposto i capelli dietro le orecchie, metto il viso di tre quarti per godere di una luce migliore, protendo il mento per spianare le rughe. A volte ho bloccato l’inquadratura in modo da vedere solo la mia faccia, con un senso di ingannevole liberazione. Verso noi stessi l’interesse è sempre acceso, è un vizio che non riusciamo a perdere. Il lockdown ci ha trasformati in Narciso: non solo non vediamo più nessuno di persona, ma siamo condannati a osservare noi stessi di continuo. Questo narcisismo mi sembra l’espressione più forte dell’isolamento di queste settimane. Quando la pandemia sarà finita e torneremo a una vita normale, non sopporteremo più neanche di guardarci allo specchio.

 

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