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Scuola di mamma

Gaia Manzini

Avere fiducia nelle istituzioni ma soprattutto nei bambini. Mia figlia nel suo primo giorno in classe ha una nuova lezione da imparare. La gioia dei compagni ritrovati e del nuovo linguaggio a distanza

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“Suo figlio non esiste, è una sua fantasia” scriveva Lalla Romano in quel libro bellissimo e terribile che è Le parole tra noi leggere (1969).

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“Suo figlio non esiste, è una sua fantasia” scriveva Lalla Romano in quel libro bellissimo e terribile che è Le parole tra noi leggere (1969).

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A settembre inizia un nuovo anno – dal momento che ogni anno inizia non a gennaio, ma sempre insieme alla scuola, anche se a scuola non si va più da molti anni – e io ripenso alle parole delle scrittrici che amo, mi rintano tra le sillabe, cerco una risposta, perché è a questo che serve la letteratura: a leggerti e a rileggerti e, con potere divinatorio, a suggerirti una soluzione. Se lo immagina Lalla Romano quel figlio senza nome, si affida alla memoria, ai cassetti, agli armadi, ai compiti in classe, ai disegni e alle pagine di diario; ricompone per strati il bambino e l’adolescente che è stato, quello che succhiava il latte con ferocia poi lo rifiutava, che scalciava nel ventre, che era già in lotta, che aveva uno sguardo nero lungo già in fasce, che poi crescendo aveva preso a scrivere poesie, era moralista, magro col naso adunco e camminava sbandando e tagliandole la strada. Cerca di leggere quel figlio come se fosse un libro, indaga sulla loro incomunicabilità, sulla distanza che li separa. “Suo figlio non esiste, è una sua fantasia”, le dice qualcuno.

 

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Il libro vinse il Premio Strega, ma il figlio ruppe definitivamente con la madre. Se fosse ancora viva, correrei da Lalla Romano: vorrei abbracciarla e ringraziarla per il prezzo che ha pagato, per la verità che rivelato. Per avermi detto della necessità di riscrivere la vita, compresi i propri figli. Figli che sono sempre un atto di immaginazione. Lo sono prima di nascere quando li inventiamo, diamo loro un nome, gli attribuiamo qualità, difetti, colore degli occhi e dei capelli. Lo sono mentre li abbiamo di fianco perché tessiamo di continuo il racconto della loro vita, una vita bellissima, piena di soddisfazioni e sogni realizzati, colma di sorrisi e di giornate luminose.

  


Se fosse ancora viva, correrei da Lalla Romano: vorrei abbracciarla e ringraziarla per il prezzo che ha pagato, per la verità che ha rivelato. Immagino mia figlia da sola, seduta a un banco singolo, diviso dagli altri anche se poi qualcuno avrà bisogno di una penna


 

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Linda Lê è autrice franco-vietnamita molto apprezzata dalla critica francese. Qualche anno fa ha scritto Lettera al figlio che non avrò (Edizioni Clichy): il dialogo con il figlio che lei non ha intenzione di concepire. La lettera è l’anatomia di un rifiuto netto, violento: del bambino, ma anche del compagno che lo vorrebbe. Eppure il figlio inesistente è tanto pensato e immaginato che diventa reale. Unico testimone dell’instabilità emotiva dell’autrice, della sua solitudine, della sua scrittura: “… tra le pieghe del mio essere, fai parte di me”. E della madre, lei lo sa, sarebbe fiero. Alla fine, è diventato la misura di tutto. La forza per trascendersi e per darsi le giuste proporzioni. “Tu mi rigeneri, sei più vicino che mai, tu, il figlio che non avrò”.

 

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Ogni figlio è un atto di immaginazione e di amore, ogni giorno. Fino al lockdown ho immaginato la mia bambina nella sua nuova scuola: il disordine sul banco, il suo sorriso stampato e la sua generosità, la vuoi la mia merenda? L’ho immaginata sforzarsi durante il compito di matematica e piangere per un bel voto insperato. L’ho immaginata scatenarsi e soffrire se esclusa da un gioco, essere orgogliosa di una battuta che ha fatto ridere i compagni e preoccupata per aver perso la penna nuova. Adesso che l’anno inizia, invece, dopo mesi di sospensione scolastica, non so come immaginarmela, non ho abbastanza elementi per delineare un’ipotesi verosimile. Eppure, so che se sarò brava a comporre un racconto di lei nelle ore che non sarà a casa, tutto andrà bene, o comunque meglio. Avrò più speranza di influenzare l’esito delle sue giornate; in qualche modo avrò un merito in quest’emergenza, in questo domani sbocconcellato dal dubbio e dall’incertezza.

 

La scuola ci mette davanti al fatto che tutto è davvero cambiato. Per un attimo ci siamo illusi che non fosse davvero così. I mesi estivi ci hanno consegnato un lungo periodo di sospensione: siamo stati fuori, all’aria aperta il più possibile, talvolta dimenticandoci di quello che avevamo passato e subito dopo sentendoci in colpa, divisi tra chi ha ricominciato a vivere come se nulla fosse e chi invece cerca di limitare ancora ogni contatto. Al concerto non siamo andati, alla festa di compleanno neanche, a cena fuori pochissimo. Al mare ad agosto eravamo ospiti in un casa piena di amici, ma nessuno ha detto mai neanche una volta andiamo fuori a mangiare, andiamo a fare l’aperitivo. Stiamo tra di noi, d’accordo non eravamo pochi, ma qualche eccezione va pur fatta. Nessuno ha insistito o ha teorizzato un comportamento piuttosto che un altro, abbiamo agito in modo istintivo, come chi ha interiorizzato un automatismo, che è sempre comunque un modo di non pensarci. Ma adesso no, adesso che si torna a scuola, ogni singolo passo va ragionato; ragionata ogni decisione, ogni orario. E ogni atto immaginativo.

 

Non mi piace che devo tenermi la mascherina, dice mia figlia. Non ribatto. Non so se riusciranno a tenerli a distanza – se nella nostra scuola si riuscirà davvero a rispettare un metro dalle ormai famose “rime buccali”. So solo che tante sono state le comunicazioni della preside, tutte rassicuranti, tutte operative. Il distanziamento sarà garantito, si dice: eppure nessuno sa se prima o poi avranno i banchi monoposto, quelli che sono già stati consegnati a Codogno, Alzano, Nembro. La immagino da sola, i quaderni uno sopra all’altro, un banco singolo, diviso dagli altri anche se poi qualcuno avrà bisogno di una penna, di una gomma, di un righello, e gli scambi saranno inevitabili e necessari. Anche perché me li vedo con le loro mascherine addosso, se non al banco comunque negli spostamenti tra i corridoi; e a immaginare ventisei bambini di dieci anni con la mascherina mi si stringe il cuore: se non si vede la bocca come ci si capisce? E infatti si parla di mascherine trasparenti per alcuni insegnanti. Ma i ragazzi? Come si fa a sapere se quella bambina è felice o soffre? Se il compagno ci vuole ancora bene oppure è nervoso e si morde il labbro? Non voglio la mascherina perché respiro male, dice. E poi non si vedono i sorrisi, aggiungo io. Lei alza le spalle, quello non le importa, non davvero. I sorrisi io li vedo dagli occhi, aggiunge. Tiro un sospiro di sollievo, mi sembra già un buon inizio.

  

Il 14 settembre la scuola dovrà riaprire quasi in ogni regione e nove milioni di persone torneranno nelle aule. Bisogna garantire l’obbligatorietà e la gratuità dell’istruzione primaria, bisogna portare avanti gli obiettivi formativi, ma tutto deve avvenire in sicurezza. E allora i diritti e i doveri vanno ricalibrati, bisogna trovare nuove parole per tracciarli proprio negli anni in cui la conquista della propria libertà è il sogno più grande da realizzare.

 

In vacanza mi hanno raccontato una storia. Una sera siamo andati a cena da una coppia di Milano che vive sull’isola tutto l’anno, la casa sperduta nella macchia mediterranea, in mezzo a cespugli di mirto e pini marittimi che svettano nel cielo. “Il barbiere” dice lui a un certo punto, a corollario di chi gli fa osservare che vivere su questa isola selvaggia e bellissima non deve essere facile. Si passa una mano tra il ciuffo troppo lungo e dice che la cosa più complicata è andare dal barbiere; noi ridiamo, ma figurati, sembra una facezia. Di barbiere sull’isola ce n’è solo uno. Sta a un passo dalla piazza quadrata con le panchine intorno ai tronchi degli alberi dove le persone se ne stanno sedute tutto il giorno come anelli umani. Il barbiere è stato fondato negli anni Settanta e così è rimasto, non si è mai rinnovato. I vecchi ritagli di giornale, il prezzario in lire, gli specchi ingialliti e due poltrone. Lui, il barbiere, ne utilizza solo una. E’ per questo che gli appuntamenti vengono dati a tre settimane di distanza, è per questo che la fila si snoda intorno agli alberi sulle panchine. Anche perché dentro è così piccolo che lì certo non si può attendere il proprio turno; chi vuole scambiare due parole si affaccia alla piccola finestra laterale ad altezza strada. Eppure, il motivo di tanta cautela non è il Covid. Il salone era stato fondato da due soci, due amici da sempre. Questi amici dieci anni fa hanno litigato. Il motivo non lo conosce nessuno: forse è stato solo l’aver passato troppo tempo insieme, uno accanto all’altro, tutte le mattine e i pomeriggi cinque giorni su sette. La loro attività è sempre stata apprezzata, quindi i due soci hanno deciso di non separarsi nonostante il litigio; hanno deciso di continuare a lavorare insieme nel piccolo negozio, ma senza più rivolgersi al parola. Per anni sono andati avanti così: ognuno al lavoro dietro la propria poltrona, ognuno con i propri clienti affezionati, ma senza più parlarsi. Poco tempo fa il socio del barbiere è morto, senza che siano mai riusciti a riconciliarsi. Il barbiere ha deciso che avrebbe continuato da solo, ma non avrebbe mai più usato la poltrona del socio, perché quella era da sempre la poltrona dell’ex amico, da sempre aveva rappresentato il suo lavoro, la sua abilità. Nonostante il litigio, il barbiere aveva sempre rispettato il lavoro del compagno. Ecco perché adesso chi vuole andare per barba e capelli può contare solo su una poltrona. Ora chi vuol farsi i capelli lo fa e sotto lo sguardo di un fantasma seduto sulla poltrona vuota. Il turista di passaggio pensa che sia tutto dovuto al distanziamento, invece è solo una questione di onore e di rispetto.

  

Tornare a scuola è un problema dell’istituzione che deve garantire ingressi scaglionati per orario; mense con accesso a rotazione, intervalli a ore diverse, sport da praticare soprattutto all’aperto; mezzi di trasporto non troppo affollati. Ma tornare a scuola è anche una questione individuale, il distanziamento deve essere consapevole, bisogna esercitare una responsabilità personale di prudenza. Sì, è una questione di rispetto. E io mi ritrovo a cercare di trasmettere questo a mia figlia che non è piccola e incosciente come sarebbe un’alunna della materna o dei primi anni di elementari, ma non è neanche grande come una ragazzina delle medie o del liceo; e se pure capisce la logica di un discorso di buonsenso, ha anche la voglia irrefrenabile di ritrovarsi finalmente con tutti i suoi compagni, perché per lei la classe è un organismo unico: un organismo vivente. C’è ancora la gioia e la bellezza di sentirsi parte di un tutto. Ma è un’appartenenza che ha ancora i propri rituali in abbracci e spinte, in scambi di merende e di felpe, in bigliettini e disegni passati sotto al banco. In questo inizio di scuola, se qualcuno si ammalerà andrà in quarantena tutta la classe, tutta la classe farà il tampone. Il ritorno del Covid avrà il nome e il cognome di un bambino.

 

Nella nostra scuola elementare ci saranno cartelli grandi un metro, almeno così apprendo da un articolo di quotidiano che ci ha girato il rappresentante di classe. La boccetta di disinfettante che sorride, lo sciame di mostriciattoli intorno a un gruppo di studenti troppo vicini tra loro, le sagome di bambini con le braccia allargate per simulare la distanza da tenere. E’ stato il genitore di alcuni compagni a concepire la nuova segnaletica. Tutto questo, dicono, servirà a suggerire un nuovo comportamento, nuove posture da assumere a scuola, perché tutti noi vogliamo che la scuola riprenda. Non possiamo rimanere indietro col programma, alle medie dobbiamo arrivare preparatissimi, dice lei preoccupata.

 

E allora provo a immaginare la sua giornata, provo a dare fiducia all’immaginazione. Eccoli che salgono sulle scale piano, ordinati, se qualcuno spinge gli altri lo fanno notare, c’è spirito di collaborazione; a ricreazione sono tutti seduti, disegnano, parlano a distanza; e poi eccoli i tentativi di comunicare senza toccarsi, cuori mimati con le dita, cinque mai battuti sui palmi, messaggi scritti su fogli da tenere a distanza. A ricreazione dovreste fare il gioco dei mimi, dico io. Oppure gli indovinelli, risponde lei. Le soluzioni arrivano sempre. Il vero sforzo narrativo in cui devo applicarmi è quello di una storia senza antagonisti, in cui nessuno punta il dito contro l’altro se dovesse registrarsi un incremento nell’indice di trasmissione di contagi. Perché lo sforzo è quello di rimanere uniti davanti al pericolo - unite le forze politiche, ma soprattutto uniti i bambini e i ragazzi, uniti i loro genitori. Se alle porte delle mia proiezione si affaccia Il dio del massacro di Yasmina Reza, io lo scaccio. Anche se gli spazi non saranno sufficienti, se le scuole non possono contare su presìdi medici dedicati e la febbre va provata a casa, anche se molti docenti si rifiutano di sottoporsi all’esame sierologico e molti mancheranno per l’inizio dell’anno scolastico, quello della fiducia ai bambini e ai ragazzi, quello di una narrazione positiva è un modo per tendersi la mano, per abbracciarci anche se solo idealmente, solo nel pensiero. Con quei pensieri che ci rendono forti perché sono pensieri condivisi, civili, democratici.

Eccoli che salgono sulle scale piano, ordinati, se qualcuno spinge gli altri lo fanno notare, c’è spirito di collaborazione. La storia del barbiere dell’isola. Il turista di passaggio pensa che sia una vicenda legata all’epidemia, invece è onore e rispetto

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