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Lockdown di fatto

Le scuole a rischio chiusura

Antonio Gurrado

Se le indicazioni operative verranno seguite alla lettera le classi si svuoteranno a colpi di eccezioni

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Se le indicazioni operative per la gestione dei casi di Covid verranno seguite alla lettera, c’è il rischio che le scuole arrivino a una nuova chiusura di fatto: nominalmente aperte, cadranno sotto una gragnuola di eccezioni se non di escamotage. La circostanza più eclatante riguarda il dovere dei genitori di garantire la buona salute dei figli. Non significa solo misurare la febbre a casa ma badare che non presentino nessun sintomo tra “tosse, cefalea, sintomi gastrointestinali, faringodinia, dispnea, mialgie, congestione nasale”. 

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Se le indicazioni operative per la gestione dei casi di Covid verranno seguite alla lettera, c’è il rischio che le scuole arrivino a una nuova chiusura di fatto: nominalmente aperte, cadranno sotto una gragnuola di eccezioni se non di escamotage. La circostanza più eclatante riguarda il dovere dei genitori di garantire la buona salute dei figli. Non significa solo misurare la febbre a casa ma badare che non presentino nessun sintomo tra “tosse, cefalea, sintomi gastrointestinali, faringodinia, dispnea, mialgie, congestione nasale”. 

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E poi ancora, i figli non dovranno avere “brividi, difficoltà respiratorie, perdita o diminuzione dell’olfatto, perdita o alterazione del gusto, diarrea”. Di fatto, i genitori avranno il potere di tenere a casa i figli quando vogliono e ci sarà da temere un’ondata eccessiva di cautela, se non di furbizia. L’insorgenza di uno qualsiasi di questi sintomi a scuola scatena un effetto domino dalle conseguenze imponderabili. Anche qui non si tratta tanto della procedura barocca nel caso in cui a un alunno venga mal di gola o mal di testa (il docente deve avvertire il responsabile Covid, che tradurrà l’alunno in un’area di isolamento, dove gli verrà fatta rispettare “l’etichetta respiratoria”) quanto del fatto che nuovamente i genitori avranno il compito di contattare il medico curante. A quest’ultimo è lasciata la responsabilità di richiedere o meno (“in caso di sospetto Covid-19” vuol dire tutto e niente) un test di accertamento. Indipendentemente dal risultato, un pezzo di scuola si ferma. Se risulta negativo, l’alunno resta comunque in quarantena fino alla ripetizione del test tre giorni dopo. Se risulta positivo, rientrerà a scuola solo quando due successivi tamponi daranno esito negativo, mentre studenti e insegnanti a contatto con lui nei due giorni precedenti resteranno in quarantena per due settimane. Ciò vale anche per i docenti che dovessero accusare uno solo di quei sintomi, con la differenza che un alunno sta in una sola classe, mentre un docente in tre, cinque, otto, chissà. Inoltre va messo in quarantena ogni docente o studente che conviva con qualsiasi individuo risultato positivo.

 
Mettendo insieme queste casistiche nient’affatto remote, che si accavalleranno nel corso dell’anno scolastico, si otterrà un guazzabuglio di banchi vuoti, cattedre deserte, pile di certificati medici: un lockdown inconfessato. Al riguardo le indicazioni, così perentorie nello stabilire le procedure, si perdono in un balletto di vaghi condizionali: “un singolo caso confermato in una scuola non dovrebbe determinarne la chiusura”, “dovrebbe essere identificato il meccanismo con il quale gli insegnanti posti in quarantena possano continuare a svolgere regolarmente la didattica a distanza”, per non parlare del “sistema flessibile per la gestione della numerosità delle assenze”. Cosa vuol dire? L’anno scolastico è comunque valido per tutti? Ha senso andare a scuola se i compagni possono restare a casa e i docenti ci sono a intermittenza? E’ previsto un paracadute per i genitori lavoratori i cui figli saranno in quarantena?

 
“Il vostro timore è realistico”, spiega al Foglio Ezio Delfino, dirigente di scuola superiore e presidente della Disal (Dirigenti Scuole Autonome e Libere), “tanto più che non tutte le famiglie sono in grado di gestire le situazioni di emergenza a casa; ma ci sono davvero alternative? Le indicazioni operative non sono in senso stretto del ministero dell’istruzione, che ha fatto da tramite senza assumersi per ora una responsabilità diretta stabilendo norme ulteriori. La situazione ottimale sarebbe stata che ogni scuola avesse un medico di riferimento, come avveniva in passato; così invece di fatto lo stato lascia la responsabilità alle famiglie e ai presidi, anche perché il ministero non può dare indicazioni precise per ogni singolo plesso. Piuttosto, il ministero ha il compito di fornire non solo risorse ma anche protocolli semplici e chiari: infatti il perno della riapertura è da un lato il dirigente, dall’altro un patto forte fra scuola e famiglia poiché il problema non sarà riaprire la scuola; il problema sarà tenerla aperta garantendo due diritti fondamentali: all’istruzione e alla salute. Settembre e ottobre saranno decisivi e il ponte di Ognissanti sarà il primo giro di boa in cui si capirà se le indicazioni, messe in atto, funzionano. Adesso però è il momento di stringere alleanze, non di alzare barricate”.

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“Ma siete proprio sicuri che la scuola riaprirà?”, domanda a bruciapelo Angelo Colombini, segretario confederale Cisl per salute e sicurezza. “La ministra si sta allenando per dare la colpa a qualcuno in caso di mancata apertura; ha già iniziato coi sindacati”. Poi illustra, dopo aver annunciato che proprio ieri è stato chiuso il protocollo di sicurezza per asili nido e materne: “Le scuole devono essere aperte in sicurezza, perché stiamo parlando di nove milioni di alunni e più di un milione di lavoratori. La riapertura però porta con sé temi disparati. Anzitutto i trasporti: la ministra ha demandato l’organizzazione dei trasporti scolastici alle regioni (la mobilità è di competenza locale) ma dovrebbe prendere decisioni. E i famosi banchi monoposto, quante realtà potranno riceverli, quando arriveranno? Come saranno smaltiti quelli dismessi, con che impatto sull’ambiente? Inoltre, il 20 e il 21 si vota: richiudere e riaprire le scuole significa prepararsi a sanificare tutto di nuovo. Poi bisogna tener conto dei lavoratori fragili, tanto più che l’età media del corpo docente è elevata; dobbiamo supportare questi lavoratori in difficoltà, ad esempio con un’applicazione più vasta della legge, già esistente, sull’accomodamento ragionevole, che consenta loro di svolgere attività meno rischiose. Allo stesso modo dev’essere massima l’attenzione per gli alunni disabili. Ci vogliono insegnanti di sostegno non solo preparati ma dotati di strumentazioni adatte a garantire il ritorno a scuola di questi ragazzi che, in molti casi, non hanno potuto usufruire della didattica a distanza durante il lockdown”. Colombini non è convinto dal rapporto fra governo e famiglie: “Da un lato lascia a desiderare che i genitori debbano autocertificare lo stato di salute dei figli, quando in qualsiasi esercizio il rilevamento della temperatura degli avventori è compito dell’esercente. Dall’altro il ministero dovrebbe confrontarsi con le famiglie sui loro problemi concreti, non sulla teoria. Invece è il Cts a decidere, quando dovrebbero farlo il governo, il parlamento e i corpi intermedi”.

  
“La politica non può andare a rimorchio del Cts”, concorda Gabriele Toccafondi, deputato di Italia Viva già sottosegretario all’istruzione. “E’ dal 28 marzo che rilasciamo dichiarazioni in favore della riapertura delle scuole e la cosa più gentile che ci dissero, all’epoca, era che eravamo incoscienti. Noi abbiamo sempre ritenuto fondamentale riaprire, anche solo in modo simbolico nell’ultima settimana di lezioni, perché la scuola non è un insieme di nozioni ma un intero percorso formativo, e duecento giorni di chiusura hanno lasciato una cicatrice sui ragazzi. Per questo la critica che abbiamo fatto al governo, pur all’interno della maggioranza, era dettata dall’assenza di un piano per il rientro. Lo abbiamo detto a marzo, ad aprile, a maggio… e così siamo arrivati ad agosto”.

 

Ora che finalmente si riapre, le ragioni per essere ottimisti non abbondano. “Da sempre ci preoccupa il metro di distanza: col metro di distanza, la scuola non riparte, perché si finisce per tenere fuori dalle aule centinaia di migliaia di alunni. Gli ultimi, quelli privi di mezzi, resteranno ancora ultimi; per questo noi diciamo basta didattica a distanza, basta smembrare le classi a turno, ma basta anche con classi di ventotto ragazzi. E poi molta responsabilità viene affidata ai presidi, ai quali viene detto più o meno di arrangiarsi decidendo di volta in volta quali sono i ‘contatti stretti’ di cui parlano le indicazioni, da isolare in caso di contagio. Sembra di essere tornati ai congiunti. In base all’interpretazione che il preside dà al termine, rischia di restare chiusa tutta la scuola”.

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