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L’università? E' già futura. Parla il ministro Manfredi

Alessandro Barbano

Dal Covid a una nuova didattica. Come fare a non perdere matricole (rischio vero). Atenei, qualità e territori. Il piano Colao? No. Il referendum? Voto Sì

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Qualcuno dice che è troppo facile dire “cinquanta e cinquanta”, dopo mesi di polemiche in cui la didattica online e quella in presenza hanno diviso docenti, intellettuali e tecnici al servizio della politica. Ma lui, Gaetano Manfredi, ieri alla guida della Federico II di Napoli e della Conferenza dei rettori, oggi ministro dell’Università e uomo di fiducia del premier, spiega che questa divisione pilatesca dell’insegnamento a metà, in parte scaricata sull’autonomia degli atenei, è anche la decisione scientificamente più coerente: “La pandemia – dice – ci ha imposto per la prima volta di valutare le conseguenze di un fenomeno che abbiamo fin qui ignorato o sottovalutato: gli studenti sono tutti nativi digitali. Vivono, studiano, parlano e amano con un linguaggio che è diverso da quello con cui il mondo della formazione e dell’istruzione si rivolge a loro. Lo sapevamo da tempo, ma l’atteggiamento dell’autorità è stato quello di credere che, se loro cambiavano, le istituzioni dovessero restare immobili. La crisi sanitaria è stato l’innesco di un processo trasformativo che, tuttavia, nessuno al mondo in questo momento sa quali sbocchi avrà e in che modo governare”.

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Qualcuno dice che è troppo facile dire “cinquanta e cinquanta”, dopo mesi di polemiche in cui la didattica online e quella in presenza hanno diviso docenti, intellettuali e tecnici al servizio della politica. Ma lui, Gaetano Manfredi, ieri alla guida della Federico II di Napoli e della Conferenza dei rettori, oggi ministro dell’Università e uomo di fiducia del premier, spiega che questa divisione pilatesca dell’insegnamento a metà, in parte scaricata sull’autonomia degli atenei, è anche la decisione scientificamente più coerente: “La pandemia – dice – ci ha imposto per la prima volta di valutare le conseguenze di un fenomeno che abbiamo fin qui ignorato o sottovalutato: gli studenti sono tutti nativi digitali. Vivono, studiano, parlano e amano con un linguaggio che è diverso da quello con cui il mondo della formazione e dell’istruzione si rivolge a loro. Lo sapevamo da tempo, ma l’atteggiamento dell’autorità è stato quello di credere che, se loro cambiavano, le istituzioni dovessero restare immobili. La crisi sanitaria è stato l’innesco di un processo trasformativo che, tuttavia, nessuno al mondo in questo momento sa quali sbocchi avrà e in che modo governare”.

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E quindi che si fa?

“E quindi si sperimenta sul campo e si verifica, tenendo conto che il campo non è unico per tutti e che la risposta più adeguata non può che venire dall’autonomia dei territori e dei singoli atenei”.

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Vuol dire che la divisione netta in due della didattica, metà in presenza e metà online, somiglia a quegli esperimenti alla cieca che portano gli scienziati a un approdo ignoto?

“Se la metafora le piace, l’approvo. Ma gli scienziati non vanno alla cieca. E nemmeno noi. La pandemia ha rafforzato alcune nostre percezioni e ce ne ha date di nuove. Ci ha consentito, per esempio, di rivalutare la didattica in presenza nel suo contenuto di interattività tra studenti e docenti. Questo è già molto importante, perché ci ricorda che stare nella stessa comunità e parlare, dentro e fuori dalla lezione, significa costruire un sistema di relazioni che fa crescere la conoscenza. Vuol dire che la fisicità dell’università non è eliminabile, perché la didattica non è solo trasmissione del pensiero, ma anche costruzione del pensiero. Però, a causa della pandemia, oggi sappiamo anche che l’uso della rete nella didattica ci ha aperto una nuova possibilità della relazione tra studente e docente, e che questo non è solo un rimedio all’emergenza, ma un’occasione per il futuro. Pensate a quanto può servire l’online per modificare, fuori dalle lezioni, il cosiddetto ricevimento e farne uno spazio di discussione e di interazione permanente, assai più decisivo di quanto non sia oggi nella vita degli studenti. Poi, scusate il gioco di parole, sappiamo che la didattica a distanza riduce la distanza tra studenti-lavoratori e università. Avremmo potuto capirlo da tempo, ma diciamo che ce ne siamo accorti in questi mesi. Non a caso durante il lockdown abbiamo abbiamo avuto una frequenza altissima dei corsi, non solo perché la gente stava chiusa in casa. Ma soprattutto perché abbiamo raggiunto segmenti della popolazione studentesca che normalmente non frequentano le lezioni”.

 

Però converrà che c’è didattica online e didattica online. Che non è la stessa cosa spiegare Leopardi con i ragazzi a casa che guardano e ascoltano dallo schermo, o piuttosto dividere gli studenti in gruppi, chiedere loro di costruire una biblioteca digitale del pessimismo storico e di quello cosmico. Per fare la didattica a distanza non serve un cambio di paradigma?

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“Assolutamente sì. Fin qui la risposta che il sistema accademico ha messo in atto è stata quella di trasporre sulla rete, in una situazione emergenziale, la didattica in presenza. Abbiamo scoperto due cose: la prima è che la metodologia della didattica a distanza è molto diversa, la seconda è che la didattica in presenza vecchio stile, con il docente che parla in cattedra e gli studenti che ascoltano in silenzio, è vecchia. Se c’è un’urgenza di fronte alla quale la pandemia ci ha costretto ad aprire gli occhi, questa è l’innovazione del modo di insegnare. E’ il tema del futuro prossimo. Ma se cambia la didattica in presenza, cambierà anche quella a distanza, in un modo diverso da quello che oggi consideriamo moderno. Perché si tratta di costruire un sistema complementare, capace di interagire con giovani che, come dicevamo all’inizio, sono tutti nativi digitali. Perciò si apre una fase molto interessante, di cui non possiamo prevedere interamente gli esiti”. Ma i docenti ci stanno? “Ci sono sensibilità e correnti di pensiero diverse. C’è chi ha timore di questo cambiamento, perché teme di minare il valore di comunità che ha oggi la vita universitaria. Personalmente penso il contrario. Che una forte modernizzazione dei modelli di insegnamento possa e debba accentuare la relazione. In ogni caso è il momento di aprire un dibattito, con l’umiltà di riconoscere che nessuno di noi ha la soluzione in tasca. Per parte mia, spingerò in ogni modo per finanziare l’innovazione didattica e promuovere momenti di confronto sul tema”.

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Un nuovo modello di didattica mista può fermare il crollo delle immatricolazioni? Non teme che, come accadde già nel triennio 2001-2014, la crisi economica falcidi la popolazione universitaria?

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“Abbiamo fatto, d’intesa con le università e le Regioni, un grande intervento sul diritto allo studio per sostenere le famiglie che hanno avuto una perdita improvvisa di reddito. Aspettiamo di vedere i risultati. Ma l’innovazione didattica può contrastare un altro fenomeno che fa soffrire il sistema italiano: l’abbandono degli studi. Abbiamo la percentuale di dispersione universitaria più alta d’Europa e una didattica innovativa non può che aiutarci”.

 

Non crede piuttosto che l’abbandono agli studi mostri, tutto intero, il grande mismatch esistente tra scuola e università?

“Certamente sì, ma, quando due sistemi mancano l’incontro, bisogna far sì che ciascuno si avvicini all’altro. Per ciò che mi riguarda, si tratta di sviluppare il ramo della formazione terziaria professionalizzante, quella che in Germania e in Francia si chiama università tecnica. Qui il ritardo è evidente. La nostra offerta è limitata agli Istituti tecnici superiori e alle cosiddette lauree professionalizzanti, che sono ancora all’esordio. Il mondo degli studenti che viene dai tecnici e dai professionali non ha oggi uno sbocco adeguato, mentre in Germania il 40 per cento dell’intera popolazione universitaria è costituito da questo bacino. Credo che il Recovery Fund ci sarà utile per colmare questo gap con una risposta strutturale. Poi c’è il tema dell’orientamento. Negli altri paesi europei la scuola superiore prepara i ragazzi all’università, cioè li guida verso una scelta più consapevole, sia valutando le loro competenze e il loro talento, sia rispettando le loro aspirazioni. La scuola italiana manca questo obiettivo. Dobbiamo al più presto mettere in piedi un piano di orientamento attivo. Ne ho parlato con la vice ministra Anna Ascani”.

 

Ma il numero chiuso non è un altro inutile muro?

“Il numero chiuso ormai impatta in maniera consistente solo su Medicina. Su Architettura gli studenti candidati alle iscrizioni sono meno dei posti disponibili. Su Psicologia e Scienze della comunicazione il freno serve a fermare l’inflazione di iscritti, a cui non corrispondono sbocchi professionali sufficienti. Ma anche su Medicina, se noi orientiamo bene gli studenti il problema del numero chiuso scompare. Perché ognuno sceglie ciò che vuole e può fare. Oggi invece abbiamo settantamila ragazzi che puntano a questo obiettivo, un quarto di tutte le potenziali matricole, un numero fuori scala rispetto a qualunque confronto europeo”. Abbiamo anche un numero di medici inferiori alle necessità del Paese, e la pandemia lo ha mostrato chiaramente. “Non a caso ho fatto una battaglia personale per far crescere di millecinquecento unità il numero di posti messi a concorso, portandolo a tredicimila, il massimo dell’offerta che oggi le università italiane possono dare. Non tutti i rettori erano d’accordo, ma alla fine abbiamo trovato un’intesa soddisfacente”.

 

C’è chi, come i docenti del sito Roars, sostiene che il decreto Semplificazioni, aumentando l’autonomia delle università, dilati anche il divario tra atenei piccoli e forti.

“Penso l’esatto contrario. Il decreto Semplificazioni modifica una disposizione della riforma Gelmini, peraltro mai applicata, dando agli atenei la possibilità di fare accordi con il ministero per sviluppare in autonomia programmi specifici. Questa facoltà era subordinata a requisiti di eccellenza scientifica o finanziaria, tagliando fuori molte università del Sud. Mi sono limitato a eliminare il paletto, affinché tutti possano sviluppare questa forma di autonomia. Perciò quest’apertura può ridurre e non accentuare il divario”. Però il tema della polarizzazione universitaria è tutt’altro che una fantasia, se è vero che negli ultimi due anni i finanziamenti di Torino sono cresciuti del 6 per cento e quelli concessi a Messina si sono ridotti del 24 per cento. “Il problema c’è, anzi oserei dire che questo è il problema dell’università. Ma da quest’anno, nella ripartizione del fondo di finanziamento ordinario, abbiamo introdotto la clausola per cui nessuno scende sotto lo zero, cioè nessuno perde quote di fondi rispetto agli anni precedenti. Lo abbiamo potuto fare perché le risorse stanziate dal governo sono cresciute. E lo ripeteremo certamente nei prossimi due anni. Non è pensabile in questo momento storico togliere il fiato alle università, anche perché tutti, anche gli atenei del Sud, stanno facendo uno sforzo di competitività che comincia a dare risultati”. Però la geografia accademica rispecchia ancora la geografia economica del paese. Il suggerimento della commissione Colao per ridurre lo squilibrio è la spinta verso un sistema competitivo, in cui solo le grandi università abbiamo tutti i corsi e le piccole si specializzino in alcune discipline specifiche. Il governo ha ascoltato, letto e ignorato. Perché? “Perché dietro quel progetto c’era un’idea di selezionare in maniera diversa le università, differenziandole tra atenei di serie A e atenei di serie B. Un’idea che non condivido. La forza del nostro sistema, a differenza di ciò che avviene in molti paesi, è nella capacità di garantire una buona qualità media in qualsiasi sede. Una equilibrata distribuzione del valore accademico è un valore da preservare, non un difetto, in quanto rappresenta un fattore unificante per il paese e uno strumento per ridurre le diseguaglianze. Diverso è dire che non tutte le università possono fare matematica, perché ci vuole una massa critica di cui non tutti i territori dispongono. O che, per esempio, materie come il cinese o il giapponese possono concepirsi solo come offerta di atenei specializzati, quali l’Orientale di Napoli. Ma questa è una misura della razionalità dell’offerta, non una geografia gerarchizzata del sapere”.

  

A dieci anni dalla legge Gelmini, che giudizio dà di quella che è stata l’ultima grande riforma di sistema?

“Un giudizio positivo. La riforma è stata un fattore di cambiamento che ha modernizzato l’accademia, secondo due principi: il rafforzamento dell’autonomia e l’introduzione della valutazione. Certo, dopo dieci anni dovremmo fare un tagliando. Perché a volte l’attuazione di questi principi ha sortito sovrastrutture di controllo molto pervasive, con l’effetto di una burocratizzazione eccessiva”.

Ma si può forse dire che la riforma ha rimesso il merito in cattedra?

 “In parte direi di sì”.

 

La valutazione ancorata agli indicatori quantitativi dell’Anvur, anziché all’autonomia discrezionale del magistero, può chiamarsi merito?

“Trent’anni fa, quando sono entrato nell’università, quella discrezionalità tarpava le ali a docenti di valore, che venivano puntualmente scavalcati nei concorsi dalla cooptazione di candidati locali non all’altezza. E’ chiaro che nessun sistema è ottimale, ma il filtro del concorso di idoneità nazionale e i principi oggettivi a cui è ancorato ci hanno aiutato a superare la giungla. Oggi bisogna evitare l’effetto opposto, che il concorso si riveli un terno al lotto. Perciò ritengo che è il momento di una revisione delle procedure di selezione”.

 

Ma si può affidare la valutazione di un concorso per una cattedra di filosofia al numero di pubblicazioni sulle riviste, negando il confronto orale tra la commissione e il candidato?

“Ammetto che la dittatura dell’algoritmo è un esito abnorme, che va superato”.

 

La deriva docimologica è figlia della cultura confindustriale che animava la riforma, o di un certo positivismo meccanicistico della sinistra italiana?

“E’ difficile individuare una matrice culturale univoca, di certo è un vizio. I parametri oggettivi sono degli utili paletti contro gli abusi, ma il giudizio discrezionale rappresenta un valore, soprattutto nella ricerca. Perché alla fine l’università è cooptazione virtuosa. Questo è l’obiettivo a cui dovremmo tendere”.

 

Si può farlo senza liberarsi della psicosi della corruzione? Per cui la segnalazione di un bravo studente per un posto di dottorato altrove è un merito e una responsabilità del docente, qui diventa il presupposto dell’abuso d’ufficio?

 

“Dobbiamo trovare un equilibrio tra gli estremi. Evitando il tecnicismo che umilia la maestà del sapere, ma evitando anche che il cavallo di Caligola torni a vincere i concorsi”.

 

L’Anvur va ridimensionato? 

“Senza l’Anvur non avremmo avuto un sistema di valutazione. Adesso bisogna scongiurare una deriva meccanicistica. Gli stessi vertici dell’Agenzia stanno facendo una riflessione. Tenendo conto che poi l’ultima parola spetta al ministero”.

  

L’umanesimo ha pagato di più?

“La scienza era più preparata ad affrontare un approccio valutativo. L’estensione dei suoi metodi alle discipline umanistiche ha prodotto asimmetrie pesanti. Da correggere”.

  

Il mandato unico di sei anni per i rettori è servito a dividere il potere accademico, o ha amputato la progettualità? C’è chi sostiene che, dopo due anni, i rettori iniziano a cercare un nuovo lavoro.

“Questo contraccolpo riguarda anche la politica. La non rinnovabilità del mandato evita i potentati e fa più forti i rettori di fronte alle pressioni, perché li libera dalla ricerca del consenso. Ma, in nome del ricambio, è una perdita di professionalità acquisite, perché fare il rettore non è una cosa facile”.

  

Lei è considerato un ministro tecnico. Tuttavia chi la conosce sa che appartiene alla sinistra liberale. C’è una consonanza tra la cultura di cui è portatore e quella del governo giallorosso?

“Dal sostegno che ho fin qui ricevuto alle mie idee e alle mie proposte dico senz’altro sì. Se vuole sapere se in questi sei mesi mi sono mai sentito fuori posto, le rispondo di no”.

 

Ma quale cultura politica può aiutarci a uscire rinnovati dalla pandemia?

“Credo che oggi ci voglia un forte riformismo. Dopo un grande shock globale la rigenerazione di un corpo sociale non è diversa da quella di un corpo biologico: impone un cambiamento profondo. Nessuno pensi di tornare a come si era prima. Ma il riformismo che io immagino deve avere una grande attenzione al sociale, perché veniamo da una stagione in cui le società si sono divise tra diseguaglianze ed esclusioni. La direzione del riformismo è un riequilibrio sociale”.

 

Ci sono riforme e riforme. Sta per arrivarne una che amputa il Parlamento. Lei come vota al referendum?

“Faccio parte di questa maggioranza e ne condivido la visione riformatrice. Perciò voterò Sì. Ma al fianco di questa riforma è necessaria una nuova legge elettorale per proteggere la rappresentanza”.

 

Lo dice anche Zingaretti, ma non si capisce perché si dovrebbe mettere a rischio la democrazia modificando la Costituzione, per poi difenderla con una legge ordinaria. Non le sembra una contraddizione?

“Penso che il paese ha risorse democratiche maggiori di quello che si creda. Non temo derive autoritarie. Una buona legge elettorale può essere una risposta sufficiente”.

 

Conte dice che nel futuro non si vede lontano dalla politica. Lei, che è uno dei ministri a lui più vicini, che consiglio gli darebbe?

“Di non rinunciare a svolgere quella funzione di equilibrio e di mediazione che in questa maggioranza e in questo momento storico del paese è decisiva, più di quanto si possa immaginare. Sono ammirato dal suo equilibrio e dalla sua tenacia e spero che non molli”.

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