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Mica male la didattica a distanza

Francesco Ramella e Michele Rostan

Avvio delle lezioni con ritardi contenuti, esami regolari, fragilità e capacità di reazione del sistema. Ecco cosa è successo nelle aule virtuali delle università durante il lockdown

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L’8 marzo un decreto del presidente del Consiglio dei ministri ha sospeso le lezioni in tutte le università italiane, dando loro però la “possibilità di svolgimento di attività formative a distanza”. Meno di una settimana dopo, quasi i tre quarti dei professori era già transitata nelle aule virtuali, dando avvio alla cosiddetta “didattica a distanza”, cioè a lezioni effettuate mediante apposite piattaforme tecnologiche. Nella stragrande maggioranza dei casi per la prima volta nella loro carriera professionale. Per un’istituzione come quella universitaria, ancora oggi descritta come una “torre d’avorio”, cioè distante dalla realtà e poco “responsabile” nei confronti del mondo esterno, si è trattata di una straordinaria prova di reattività ed efficienza. Ma come hanno vissuto la DaD i professori e i ricercatori impegnati in prima linea? E’ andato davvero tutto bene? E, soprattutto, finita l’emergenza, che cosa rimarrà di quanto appreso da questa esperienza? E’ possibile trarne alcuni insegnamenti che possano migliorare la didattica di quella che sarà la “nuova normalità della vita universitaria”? Per rispondere a queste domande, nel mese di giugno 2020 è stata condotta un’indagine nazionale sulla didattica a distanza fatta durante l’emergenza Covid-19.

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L’8 marzo un decreto del presidente del Consiglio dei ministri ha sospeso le lezioni in tutte le università italiane, dando loro però la “possibilità di svolgimento di attività formative a distanza”. Meno di una settimana dopo, quasi i tre quarti dei professori era già transitata nelle aule virtuali, dando avvio alla cosiddetta “didattica a distanza”, cioè a lezioni effettuate mediante apposite piattaforme tecnologiche. Nella stragrande maggioranza dei casi per la prima volta nella loro carriera professionale. Per un’istituzione come quella universitaria, ancora oggi descritta come una “torre d’avorio”, cioè distante dalla realtà e poco “responsabile” nei confronti del mondo esterno, si è trattata di una straordinaria prova di reattività ed efficienza. Ma come hanno vissuto la DaD i professori e i ricercatori impegnati in prima linea? E’ andato davvero tutto bene? E, soprattutto, finita l’emergenza, che cosa rimarrà di quanto appreso da questa esperienza? E’ possibile trarne alcuni insegnamenti che possano migliorare la didattica di quella che sarà la “nuova normalità della vita universitaria”? Per rispondere a queste domande, nel mese di giugno 2020 è stata condotta un’indagine nazionale sulla didattica a distanza fatta durante l’emergenza Covid-19.

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I docenti se la sono cavata… bene

Le conseguenze inattese dell’emergenza sanitaria legata al Covid-19 hanno colto di sorpresa gli atenei italiani, che in tempi rapidissimi – e caratterizzati da una grande incertezza – hanno dovuto trovare soluzioni alternative alla didattica in presenza per poter mantenere fede alla propria missione formativa, anche in un contesto di lockdown. La situazione emergenziale ha quindi portato al centro dell’attenzione soluzioni di e-learning, con docenti e studenti che si sono trovati a sperimentare (volenti o nolenti e con diversi gradi di familiarità) modalità di didattica a distanza veicolate dalla rete internet e fruibili attraverso piattaforme digitali. Come è andata?

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Iniziamo con il dire che, davvero, sembra essere “andato tutto bene”. I ritardi nell’avvio delle lezioni sono stati contenuti. Il 72 per cento dei docenti, infatti, è riuscito ad attivare la didattica a distanza entro il 13 marzo. Le ore di lezione non si sono discostate molto da quelle previste. Negli insegnamenti dei corsi di studio triennali l’86 per cento dei docenti ha tenuto lo stesso numero di ore. Il 7 per cento addirittura di più. Nei corsi di studio magistrali, l’89 per cento ha tenuto tutte le ore previste. Nei corsi di master e di dottorato si sfiora la totalità. La stragrande maggioranza dei docenti è così riuscita a svolgere integralmente il programma di insegnamento. L’80 per cento ha completato tutto il programma. Solamente l’11 per cento lo ha ridotto, mentre il 9 per cento lo ha aumentato mettendo a disposizione degli studenti più materiali online. La maggioranza dei docenti ha adattato le proprie strategie didattiche all’insegnamento a distanza, il 67 per cento ha modificato un po’ sia i contenuti sia la struttura dei propri insegnamenti, il 24 per cento, invece, li ha mantenuti inalterati. Il 9 per cento ha colto l’opportunità per ripensare notevolmente la propria didattica. Sono prevalse le lezioni in diretta streaming: il 66 per cento dei docenti ha fatto lezioni in diretta streaming. Il 15 per cento ha tenuto lezioni sia in diretta che pre-registrate. Il 12 per cento ha registrato (in audio o in video) le lezioni e poi le ha rese disponibili. Il 52 per cento ha messo a disposizione online dei materiali didattici (dispense, slide ecc.) con o senza commento audio. Solamente il 7 per cento, però, ha fornito esclusivamente materiali didattici o fatto altre attività senza fare lezioni in streaming o registrate.

  

Per il 53 per cento dei docenti, gli studenti che hanno partecipato alle lezioni sono rimasti invariati. Per il 22 per cento sono addirittura aumentati. Nel 20 per cento dei casi sono diminuiti, mentre il 5 per cento dei docenti non sa valutare.

  

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Gli esami si sono svolti regolarmente

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Al momento dell’intervista, il 92 per cento dei docenti aveva già tenuto almeno un appello online. Il 37 per cento di essi esclusivamente un esame orale. Il 51 per cento un esame orale con l’aggiunta di uno scritto e/o di un’altra prova finale (esercitazione, relazione, progetto ecc.). Il 12 per cento un esame scritto e/o un’altra prova finale (esercitazione, relazione, progetto ecc.). Il 61 per cento dei docenti ritiene di aver valutato adeguatamente la preparazione degli studenti. Questi risultati sono tanto più sorprendenti se si pensa che solamente: il 9 per cento dei docenti intervistati aveva fatto in precedenza un’esperienza di didattica a distanza, il 17 per cento aveva una qualche esperienza di e-learning, perlopiù limitata alla diffusione online di materiali didattici.

 

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I docenti non sono stati lasciati soli

Perlopiù la didattica è stata svolta da casa, con una infrastruttura tecnologica sufficiente a garantire lo svolgimento delle lezioni Il 68 per cento dei docenti ha fatto lezione da casa, il 17 per cento da altri ambienti adibiti a studio personale. Nell’88 per cento dei casi la connessione internet e la strumentazione informatica a disposizione dei docenti è risultata adeguata a fare le scelte ritenute didatticamente più appropriate. Nonostante le lezioni siano state approntate dalle abitazioni private, la stragrande maggioranza dei docenti (l’89 per cento) ha ricevuto un supporto dalle proprie Università per la transizione alla didattica a distanza. Il sostegno è stato prevalentemente accentrato a livello di ateneo e ha assunto la forma di email informative (61 per cento dei casi), note scritte sul sito o sull’intranet di ateneo (55 per cento), video tutorial sull’uso delle piattaforme (48 per cento); help-desk tecnici (45 per cento); sessioni di formazione (25 per cento). Le reti istituzionali di supporto (uffici e personale dell’ateneo, della scuola e del dipartimento, responsabili dei corsi di studio) nel 53 per cento dei casi hanno fornito (molto o abbastanza) aiuto dal punto di vista tecnico e nel 22 per cento dei casi anche sotto il profilo didattico.

 

La didattica prima e durante l’emergenza

Alla luce dei dati visti finora, non sorprende rilevare che l’80 per cento degli universitari valuti positivamente il modo in cui i loro atenei e dipartimenti hanno affrontato l’emergenza, assicurando la continuità della didattica. Una percentuale che non subisce significative variazioni tra le università del nord, del centro e del sud del paese, tra i grandi atenei e quelli piccoli. Il 75 per cento dei docenti, inoltre, si dichiara soddisfatto della propria esperienza di didattica a distanza. Il 57 per cento dei docenti ritiene di aver accresciuto le proprie competenze professionali. Fra gli aspetti valutati positivamente dell’esperienza, per il 51 per cento dei docenti c’è anche una accresciuta consapevolezza della necessità di una maggiore formazione sui metodi e sulle tecniche di insegnamento, sia in presenza sia a distanza. E’ alla luce di questa soddisfazione complessiva che si spiega perché molti docenti desiderino mantenere qualcosa di questa esperienza una volta finita l’emergenza. Il 54 per cento vorrebbe che almeno una parte della didattica venisse svolta in “forma mista”, integrando le lezioni in presenza con attività online. Solamente il 2 per cento, però, ritiene che la didattica a distanza possa sostituire integralmente la didattica in presenza. Emergono, tuttavia, anche atteggiamenti opposti. Il 44 per cento, infatti, vorrebbe, appena possibile, tornare alla situazione precedente all’emergenza, senza mantenere niente dell’esperienza fatta con la didattica a distanza.

 

L’indagine ha offerto un’occasione preziosa per confrontare le modalità didattiche praticate prima dell’emergenza e quelle messe in atto nel semestre Covid-19. Risulta, così, che: nelle aule universitarie era praticata una didattica meno statica e centrata sulla “lezione cattedratica” e più dialogica, interattiva e innovativa di quanto solitamente si ritenga; l’emergenza ha comportato un drastico ridimensionamento delle esperienze più innovative e la didattica si è semplificata, tornando al modello tradizionale, quello trasmissivo, per quanto arricchito dalla discussione con gli studenti.

  

Cosa resterà della didattica a distanza

Coloro che vorrebbero passare in forma permanente alla didattica a distanza rappresentano una esigua minoranza degli intervistati. La quasi totalità dei docenti ritiene che la didattica a distanza non possa e non debba sostituire quella in presenza. Le opinioni dei docenti sul futuro, tuttavia, sono fortemente polarizzate: poco più della metà vorrebbe che almeno una parte della didattica venisse svolta in “forma mista”, integrando le lezioni in presenza con attività online; costoro, infatti, ritengono che ciò migliorerebbe l’apprendimento mettendo a disposizione degli studenti più materiali didattici e arricchendo l’interazione con i docenti. Poco meno della metà vorrebbe, invece, tornare appena possibile alla situazione precedente all’emergenza, senza mantenere niente dell’esperienza fatta con la didattica a distanza.

  

Opinioni sul futuro

Come abbiamo visto i giudizi espressi dai docenti su come è stata affrontata l’emergenza sono decisamente positivi, tenendo conto delle difficoltà e dell’incertezza in cui sono maturate le decisioni. Ma pensando al futuro, come valutano gli accademici l’utilizzo della DaD o della didattica mista, che integra le lezioni in presenza con delle attività formative online? Sgombriamo subito il campo da una questione. Come abbiamo visto, la quasi totalità dei docenti ritiene che la didattica a distanza non possa e non debba sostituire quella in presenza. Coloro che vorrebbero passare in forma permanente alla didattica a distanza rappresentano una esigua minoranza, pari al 2 per cento. Il 44 per cento, all’opposto, non vorrebbe mantenere niente delle forme di didattica sperimentate durante l’emergenza. Esiste però anche un 54 per cento di docenti disponibile verso la didattica mista. Oltre la metà dei docenti, infatti, ritiene che quest’ultima possa migliorare l’apprendimento delle singole discipline, consentendo di mettere online più materiali didattici e di diverso tipo, e/o di differenziare le modalità di interazione con il docente.

 

Percentuali minori, ma comunque significative, ritengono che queste modalità di insegnamento consentirebbero la sperimentazione di nuove strategie didattiche: liberando le lezioni in presenza delle parti più routinarie e lasciando più spazio alla discussione e all’approfondimento (40 per cento), facilitando attività mirate sulle competenze e sulla formazione interdisciplinare integrata (47 per cento), agevolando più autonomia nell’apprendimento (40 per cento) e una maggiore collaborazione tra gli studenti (45 per cento).

 

Molti, inoltre, ritengono che la DaD agevolerebbe alcune categorie di studenti, ampliando la platea dei potenziali beneficiari della formazione universitaria e rendendola più inclusiva: il 77 per cento ritiene che aiuterebbe gli studenti/esse lavoratori/trici. Il 73 per cento che espanderebbe la formazione permanente. Circa i due terzi che renderebbe, virtualmente, più agevole la “mobilità” educativa e le opportunità formative per le persone che vivono nelle aree interne (69 per cento), oppure in altre regioni (69 per cento) o stati (63 per cento). Il 64 per cento che faciliterebbe gli studenti con disabilità specifiche di apprendimento. Infine, una quota più contenuta ma comunque elevata (il 48 per cento), ritiene che aiuterebbe gli studenti più deboli sotto il profilo socio-economico. Ciò detto, affiora anche una certa polarizzazione di giudizi. Infatti, non sono neppure trascurabili le percentuali di docenti che guardano con preoccupazione al protrarsi della didattica a distanza oltre il periodo dell’emergenza sanitaria. Il 40 per cento ritiene che una eventuale estensione della DaD potrebbe ridurre il reclutamento; il 57 per cento che comporterebbe un notevole sovraccarico di lavoro e di stress; Il 58 per cento che indurrebbe una maggiore ingerenza dei grandi gruppi dell’industria tecnologica nella didattica universitaria.

 

L’importanza cruciale della didattica

Le crisi svolgono un’importante funzione di disvelamento, facendo emergere non solo le fragilità dei sistemi sociali, ma anche elementi – talvolta insospettati – di resilienza, flessibilità e capacità reattiva. Quando le routine si interrompono, infatti, si producono delle lacerazioni nelle prassi consolidate che ne lasciano intravedere la struttura profonda. Da questi “spiragli” affiorano dimensioni spesso date per scontate, che non vediamo quasi più, di cui invece riscopriamo, nei momenti critici, la funzione essenziale. Per quanto riguarda l’università la crisi pandemica ha riportato alla luce l’importanza cruciale della didattica. Una delle missioni date per scontate e trascurate in molti atenei italiani. Ebbene, la chiusura imposta dal lockdown ha fatto risaltare l’insostituibilità della didattica in presenza. Su questo, la quasi totalità dei nostri intervistati ha pochi dubbi. Nessuna tecnologia, nessuna forma di didattica mediata da piattaforme, può sostituire l’interazione educativa che si svolge in presenza nelle aule universitarie.

 

La crisi, inoltre, ha messo in evidenza una “insospettabile” capacità reattiva delle università italiane. Nel giro di poche settimane – in alcuni casi di pochi giorni – tutti gli atenei sono riusciti ad assicurare la continuità online delle attività didattiche. Le lezioni e i programmi sono stati svolti integralmente. Anche gli esami e le tesi sono stati tenuti regolarmente. Gli studenti frequentanti non sono diminuiti. è perciò più che giustificata – dato il contesto e le condizioni – la soddisfazione espressa dai docenti non solo nei confronti della propria esperienza personale, ma anche della prova fornita dai loro atenei.

 

Infine, la crisi ha fatto emergere quanto distante sia l’università reale dall’università fittizia immaginata nei dibattiti pubblici; spesso imprigionati in stereotipi e rappresentazioni inerziali che risalgo a molti decenni fa. Questo vale in particolare per la “didattica accademica”. Infatti, quella effettivamente praticata nelle aule universitarie è molto più dialogica, interattiva e collaborativa di quanto in genere si ritenga. Forme di didattica “innovativa” sono praticate da percentuali significative di docenti. Spesso, tuttavia, si tratta di sperimentazioni isolate, condotte individualmente, poco condivise e supportate da una riflessione pedagogicamente attrezzata. Questa considerazione ci conduce anche alle fragilità e ai lati problematici evidenziati dalla crisi. In primo luogo, il forte stress e il sovraccarico di lavoro che si è riversato su strutture tecnico-amministrative e su un corpo docente in forte carenza di organico e già gravato dalle innumerevoli incombenze burocratiche introdotte dalle varie riforme. In secondo luogo, le molte difficoltà legate al deficit di formazione dei docenti universitari, sia sulla didattica in generale sia sulle nuove piattaforme tecnologiche. Negli ultimi decenni, le tecnologie digitali hanno trasformato in profondità la vita quotidiana di molti di noi, così come il modo di lavorare, fare affari, interagire con gli altri. Altrettanto stanno facendo con i modi di apprendere e insegnare. La crisi pandemica e il confinamento obbligatorio che questa ha comportato hanno sicuramente aumentato la percezione diffusa che le tecnologie digitali stanno diventando essenziali. Sotto questo profilo l’Europa mostra un gap significativo nei confronti dei paesi tecnologicamente più avanzati.

 

Pochi anni fa, la European Investment Bank stimava un deficit di investimenti nella formazione, nella ricerca, nelle infrastrutture rispetto agli Stati Uniti pari a 190 miliardi di euro l’anno. Il nostro paese risulta particolarmente in ritardo su questo fronte. Per rendersene conto basta dare uno sguardo al Digital Economy and Society Index messo a punto dalla Commissione europea per valutare il livello di digitalizzazione degli stati membri. Ebbene, l’Italia nel 2019 si collocava solamente al 24° posto nella graduatoria generale degli stati europei. Quasi in fondo alla classifica (al 26° posto) per quanto riguarda il capitale umano (possesso di specialisti e laureati nel settore Ict; diffusione delle competenze digitali di base e avanzate), e al 25° nell’uso di internet e dei servizi online da parte dei cittadini. Sono dati che parlano chiaro. La società e l’economia italiana rischiano di rimanere confinate nel mondo dell’analogico, mentre gli altri partner europei stanno rapidamente sfruttando le opportunità offerte dal digitale. Il sistema educativo può dare un contributo essenziale a colmare questo gap. L’Università non deve sottrarsi a questa sfida.

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