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Studenti alla ricerca della verità

Educazione civica, un’ambizione senza piedi per terra

Claudio Giunta

Che cosa fare di una materia che è stata per anni ignorata, e poi periodicamente riabilitata, riformata, inserita nei programmi scolastici senza mai una coerenza didattica? La lettura della Costituzione e le difficoltà della vita reale

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Educazione civica a scuola. Cosa dovrebbe pensare un liberale, cioè una persona che vorrebbe ridurre al minimo la quantità di dottrina, intesa come insieme di idee irriflesse, che ogni agenzia educativa riversa nella mente di chi le è temporaneamente soggetto, specie quando questa soggezione riguarda individui facilmente plasmabili come sono i bambini e gli adolescenti? Vediamo.

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Educazione civica a scuola. Cosa dovrebbe pensare un liberale, cioè una persona che vorrebbe ridurre al minimo la quantità di dottrina, intesa come insieme di idee irriflesse, che ogni agenzia educativa riversa nella mente di chi le è temporaneamente soggetto, specie quando questa soggezione riguarda individui facilmente plasmabili come sono i bambini e gli adolescenti? Vediamo.

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Ma intanto, il contesto. Si è detto e si dirà che la legge 92 del 20 agosto 2019 introduce l’Educazione civica (EC) in tutte le classi di tutte le scuole. Ma naturalmente l’EC a scuola c’era già. Trenta e più anni fa, al Liceo “Massimo d’Azeglio” di Torino, l’EC ce la insegnava il professore di Storia e filosofia, un uomo colto, destrorso, col pallino del cristianesimo primitivo e delle eresie manichee (il collegamento tra l’essere destrorso e la devozione a Mani non eravamo ancora abbastanza scaltriti per farlo). Ho detto ce la insegnava ma in realtà sarebbe più giusto dire che avrebbe dovuto insegnarcela, perché per una serie di circostanze (la principale delle quali era l’overdose di lezioni sulle eresie manichee) i libri di EC non vennero mai aperti, e a distanza di tanti anni sono ancora qui, intonsi, su uno scaffale della mia libreria. Si tratta di Introduzione alla Costituzione di A. Baldassarre e C. Mezzanotte (Laterza, 1987) e di N. Bobbio, C. Offe, S. Lombardini, Democrazia, maggioranza e minoranze (Il Mulino, 1981), e il fatto che io trovi questi libri un po’ ostici ancora adesso è sufficiente a riportarci a un mondo felice nel quale tutte le ubbie pedagogiche oggi imperversanti non avevano ancora turbato il sereno tran tran della scuola di classe: i tre o quattro bravi che capivano, capivano, e gli altri venti sticazzi.

 

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Battute a parte, la sfortuna dell’EC nella sezione F del Liceo d’Azeglio di quegli anni, come in tante altre sezioni di liceo, si doveva anche al fatto che c’era il voto di Storia e c’era il voto di Filosofia, ma il voto di EC non c’era. Il decreto del presidente della Repubblica che aveva introdotto per la prima volta l’EC a scuola nel 1958 (presidente Zoli, ministro dell’Istruzione Moro) prescriveva che i programmi di storia venissero integrati dal programma di EC, ma a questa nuova disciplina non dava una cattedra: ci avrebbe pensato l’insegnante di storia, e il Dpr spiegava perché con una formulazione contestabile, ma chiara: “E’ la storia infatti – si legge nel Dpr – che ha dialogo più naturale, e perciò più diretto con l’educazione civica, essendo a questa concentrica”. E come non c’era una cattedra così non c’era né un monte-ore dignitoso (due ore al mese) né soprattutto un voto che facesse media, mentre a scuola il voto è il motore di tutto, senza voto non si è niente e nessuno.

 

Dopo il mio liceo l’EC a scuola ha subito aggiustamenti, ritocchi. E a leggere di seguito i documenti in merito emanati dal ministero tra gli anni Novanta e gli anni Zero si tocca con mano quella, come dire, complicazione di tutte le cose che l’italiano di una certa età ha imparato a riconoscere come la nemesi di questa sciagurata comunità di destino. Il Dpr del 1958, con i programmi e tutto, era lungo quattro pagine. Troppo poche. Tra gli anni Novanta e gli anni Zero i documenti ministeriali si allungano infinitamente, gli articoli generano articoli che si spezzettano in commi e sottocommi, le pagine diventano dieci, venti scritte piccolo, è cioè entrato sottopelle il principio scolastico secondo cui ‘Non importa cosa scrivi, ma scrivi tanto, almeno quattro facciate, cinque se ci riesci’, siamo già nella volata che porterà alle 136 pagine della Buona Scuola, alle 464 del Decreto Rilancio…

 

La riforma Gelmini del 2008 prova a mettere ordine e a dare un po’ di sostanza all’EC, questa materia-fantasma, ribattezzandola “Cittadinanza e Costituzione”, un’etichetta felicemente meno generica di ‘educazione civica’, che concentra le forze e l’attenzione sulla Carta che ispira e guida la vita civile del nostro Paese. Bene. Ma anche nel 2008 ci si dimentica di dare alla materia una cattedra, di fissare dei programmi men che generici e, soprattutto, di stabilire che le lezioni di EC si portano dietro un voto, che sull’EC non solo s’interroga ma si valuta. Così la buona intenzione si perde nelle brume del tempo-scuola sempre più ristretto e degli adempimenti amministrativi sempre più assorbenti: nelle scuole in cui s’insegna diritto se ne incarica l’insegnante di diritto, mentre dove diritto non c’è ci pensa, se vuole, l’insegnante di geografia o geo-storia al biennio, l’insegnante di storia e filosofia o di lettere al triennio, ma un po’ a caso, senza un programma definito e spesso anche senza un libro di testo, negli interstizi lasciati dalle materie ‘con voto’. Alla fine conviene fare la conferenza con l’esperto, il giurista o il giudice (nelle scuole à la page l’opinionista televisivo, che del resto è spesso giurista o giudice), o lavorare a uno di quei famigerati ‘progetti’ che rosicchiano ore alle discipline curricolari; nelle scuole più ricche c’è il viaggio d’istruzione a Bruxelles per sbirciare nel dedalo incomprensibile delle istituzioni europee, e tornare sapendone meno di prima.

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E infine arriva il 2019, la Lega vuole reintrodurre l’EC nelle scuole di ogni ordine e grado, presenta una legge, la spunta, maggioranza e opposizione la votano compattamente, il ministro Bussetti gioisce: “I ragazzi studieranno la Costituzione perché si possano riconoscere nei valori che stanno alla base della società civile e applicarli nella vita quotidiana”. Non male, vien fatto di osservare, per un partito che nasce per fare la secessione e il cui Statuto al primo articolo recita “Lega Nord per l’Indipendenza della Padania è un movimento politico confederale costituito in forma di associazione non riconosciuta che ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania”. Ma il fatto è che la formula educazione civica solletica l’altra anima, quella ingenuamente reazionaria, degli iscritti e simpatizzanti della Lega: ai raduni l’urlo di Salvini “Rimettiamo nei programmi scolastici l’educazione civica!” era sempre salutato dalla folla con un contro-urlo di puro piacere al pensiero che si sarebbe tornati ai tempi delle gonne lunghe, dei capelli a spazzola e delle bacchettate sulle dita agli scolari impertinenti. Non sapevano, gli astanti (e chissà se lo sapevano i parlamentari leghisti che hanno proposto la legge), che la scuola è l’ultimo ridotto della Sinistra, e lo rimarrà a lungo se gli stipendi rimangono questi, e che il programma di EC verrà amministrato soprattutto da insegnanti cresciuti con la bandiera arcobaleno, tollerantissimi dell’altrui cultura, fede, orientamento sessuale, e soprattutto – cadute le ideologie, più che mai compresa quella della Cultura – attaccati alla Costituzione come a un feticcio (il referendum del 2016 Renzi l’ha perso nelle scuole e nelle università: il Libro non si tocca).

 

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Come che sia, stavolta, bruciati da delusioni pluridecennali, si parte dalla cosa essenziale: alla preparazione in EC si darà un voto che farà media con gli altri, l’EC diventa una materia come la Chimica, la Storia, l’Italiano.

O no? In realtà no, perché non c’è un insegnante dedicato a questa materia, l’EC è un insegnamento trasversale: c’è un coordinatore, designato dal collegio docenti, ma poi di EC possono e debbono occuparsi anche tutti gli altri colleghi, per un monte-ore complessivo di 33 ore annuali, una la settimana.

 

Cosa ci sarà in questa scatola, cioè cosa contemplano i programmi dell’EC 2020? Il discorso sarebbe lungo, ma il fatto più degno di nota è che la Costituzione è sì il primo e principale campo d’applicazione della EC, ma non l’unico. La legge 92 indica una serie infinita di potenziali obiettivi di apprendimento, ma dedica un intero articolo soltanto a “Cittadinanza e Costituzione” e a “Educazione alla cittadinanza digitale”. Le linee-guida uscite qualche giorno fa indicano invece tre “nuclei concettuali che costituiscono i pilastri della Legge”: ai due suddetti si affianca e si somma un terzo nucleo descritto come “Sviluppo sostenibile, educazione ambientale, conoscenza e tutela del patrimonio e del territorio”. Nel passaggio da un ministro all’altro, sostiene qualcuno, da Fioramonti a Azzolina, gli ambientalisti hanno guadagnato terreno, si sono fatti sentire. Può essere vero o non vero, ma resta il fatto: l’EC 2020 avrà non uno né due “nuclei concettuali” bensì tre, si direbbe a egual titolo, con eguale peso.

 

Messo di fronte a una messe tanto abbondante, l’osservatore liberale non sa se gioire o dolersi. Da un lato, considera sacrosanto che nelle scuole italiane si legga la Costituzione e se ne parli. Ha qualche dubbio intorno all’opportunità che questo venga fatto già nella scuola dell’infanzia, quando l’apprendimento può passare più proficuamente attraverso altri canali, come il gioco e l’esempio, ma confida nel buon senso degli insegnanti. Quanto alla scuola primaria e secondaria si domanda chi formerà i docenti a un compito così arduo come quello che si rispecchia nei programmi di EC, coi tre “nuclei concettuali” della Costituzione, dell’ambiente e dell’istruzione digitale, e tutta una serie di sottonuclei meticolosamente indicati nel testo di legge: “Nell’ambito dell’insegnamento trasversale dell’EC sono altresì promosse l’educazione stradale, l’educazione alla salute e al benessere, l’educazione al volontariato e alla cittadinanza attiva. Tutte le azioni sono finalizzate ad alimentare e rafforzare il rispetto nei confronti delle persone, degli animali e della natura” (articolo 3 comma 2). Manca il cocco, come dice Allen in Manhattan quando a Mariel Hemingway viene servita la sua pizza acciughe-salsiccia-aglio-peperoni.

 

L’osservatore liberale (ma forse qualsiasi osservatore) si preoccupa, perché teme che, affidato a persone non preparate, l’insegnamento della Costituzione si trasformi in niente, in ore perse a mandare a memoria qualche articolo, o peggio in una specie di catechismo laico adatto a formare dei settari anziché dei cittadini pensanti. Non è inevitabile che accada, se il docente chiamato a insegnare la materia non la conosce a dovere, se non sa darle prospettiva storica, se non ha quella confidenza con le fonti che gli permette di considerarle non alla stregua di testi sacri, degni di un sermone, bensì come prodotti dell’intelligenza umana, dei compromessi umani, e come tali soggetti all’errore e quindi degni di discussione, persino di critica? Mancando le competenze specifiche, speriamo che le case editrici facciano uscire dei buoni libri di testo, dei libri chiari, non apologetici, e calibrati sul poco tempo disponibile in classe e sulla fisionomia degli scolari di oggi. Non Introduzione alla Costituzione di A. Baldassarre e C. Mezzanotte, benché ottimo: qualcosa che riesca ad essere insieme semplice, informativo, e che si tenga alla larga dalla nostra preferita tra le arti del trivio, la retorica.

 

Ma in ogni caso, che la s’insegni bene o che la s’insegni male, “Cittadinanza e Costituzione” non bastava? Non ce n’era già a sufficienza per le 33 ore annue a disposizione (con in mezzo le interrogazioni, i compiti, le feste comandate)? Bastava senz’altro, anche per dare spunti di riflessione (e lezione) agli insegnanti di lettere, matematica, fisica, storia dell’arte… Poche cose, anzi neanche tanto poche, fatte bene. Ma questa è un’altra nevrosi scolastica, cioè una nevrosi ministeriale, insomma italiana, scaricata su incolpevoli studenti e docenti: l’idea che a scuola occorra fare tanto, che occorra ‘finire il programma’, e quanto più ci sta dentro meglio è, e lo sa chiunque ha figli in età scolare a cui farebbe tanto bene leggere e scrivere, e poco altro, e ai quali invece viene ammannito un mescolone indigeribile di nozioni e idee sull’universo mondo.

 

Nel caso dell’EC, leggendo la legge e le linee-guida, si capisce che l’elenco sesquipedale di temi snocciolati dal legislatore è il prodotto di una mediazione tra le forze politiche che, concordi, hanno votato il provvedimento. Per “Storia della bandiera e dell’inno nazionale” (santamadonna) avranno insistito da destra, per la “Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile” avranno insistito da sinistra, per lo studio “degli statuti ad autonomia ordinaria e speciale” si sarà spesa la Lega, mentre a tutti quanti sarà piaciuta l’“educazione alla cittadinanza digitale”, alla quale la legge dedica un intero articolo. Ma è un articolo in cui è tutto vertiginosamente troppo. Il coding richiede tempo e competenze, non è alla nostra portata? Certo, ma allora ci si poteva porre come ragionevolissimo obiettivo un uso meno scellerato dello smartphone e dei social network, si poteva dirlo anche con un po’ d’affetto: “avete studenti che faticano a riconoscere la forma di un libro perché passano la loro vita diurna e notturna attaccati a un cellulare o a un tablet, dategli dei buoni consigli, fategli vedere le cose interessanti che si possono trovare, lasciate da parte per un attimo il tema su Foscolo e insegnategli a scrivere un messaggio su uozzap spiritoso, un post su Instagram accattivante, un tweet ben congegnato”. Invece l’articolo 5 è il solito torrente in piena articolato in 7 capi, con tutto un fiorire di velleitari analizzare, valutare criticamente, interagire, individuare i mezzi e le forme, ricercare opportunità di crescita personale e di cittadinanza partecipativa attraverso adeguate tecnologie digitali.

 

Ma – viene da obiettare: ed è questo poi il punto – il buon uso degli ambienti digitali, la capacità di evitare i rischi per il proprio benessere, la consapevolezza circa i pericoli della comunicazione in rete, tutta questa batteria di competenze non è il frutto, la conseguenza di quella maturità che si acquisisce non attraverso l’educazione digitale – un àmbito nel quale per altro gli studenti saranno sempre più aggiornati e svelti dei docenti – ma attraverso l’educazione più ampiamente intesa, cioè attraverso la convivenza con i propri coetanei e gli insegnanti, il dialogo con loro, il buon esempio, la lettura? Non stiamo gabellando per competenze settoriali, specifiche, trasmissibili quasi per contatto, quelle che sono attitudini che si sedimentano lentamente attraverso l’istruzione?

 

Mi pare insomma che questo proliferare di discipline e di obiettivi rifletta una più generale e, a mio avviso, immotivata sfiducia nella forza educativa, civilizzatrice se si vuole, che posseggono le discipline scolastiche ben insegnate: il Latino, la Matematica, la Chimica, la Storia e via dicendo. Semmai, ciò di cui si avverte il bisogno è una intelligente revisione dei programmi scolastici relativi a queste discipline, o di quelle “indicazioni ministeriali” che hanno preso il posto dei programmi, una revisione che faccia posto anche a quelli che dovrebbero essere i contenuti dell’EC: la storia dell’Italia e dell’Europa contemporanea, con particolare riguardo alla nascita dell’Italia repubblicana, la Costituzione, i princìpi e l’organizzazione dello Stato e poco, pochissimo altro. Di fatto, l’introduzione dell’EC obbligatoria a fianco, ovvero in aggiunta alle altre materie curricolari è già una surrettizia revisione dei programmi, perché per fare posto alle 33 ore di EC bisognerà saltare, non spiegare in classe una parte del programma di Storia o di Filosofia o di Lettere. Il risultato è lo stesso – una rettifica ai programmi, qualcosa che esce e qualcosa che entra – ma in questo modo l’iniziativa è lasciata agli insegnanti: fate anche questo, dice il ministero, vedete voi cosa tagliare, mentre l’iniziativa dovrebbe essere dello Stato, non per limitare l’autonomia delle scuole ma per avere, in una materia tanto delicata (e sì, tanto identitaria), linee-guida coerenti e condivise.

E infine c’è la questione della verità, con la minuscola.

“Non si può – scriveva Gianni Rodari nel Manuale del pioniere – educare i ragazzi in un’atmosfera artificiale e idilliaca. Educhiamo i ragazzi alla serenità ed alla fiducia, ma orientiamoli a conoscere la vita ed il mondo come sono”. Ho l’impressione che questa domanda di verità e di sincerità sia un po’ evaporata, nel dibattito attuale, anche e soprattutto in rapporto all’istruzione scolastica: si preferisce essere dolcemente illusi e dolcemente illudere, magnificare il potere delle idee e dei libri – come non farlo, a scuola – anche quando delle une e degli altri la vita vera, la vita associata in particolare, sembra fare serenamente a meno.

 

Ora, ogni ammaestramento che voglia sviluppare non conoscenze ma habitus può svolgersi sul piano dell’Ideale o sul piano del Reale. Può cioè indicare al discente un set di valori non soggetti a discussione e riforma (l’etichetta dice che a tavola ci si comporta in questo o quel modo, ed è questa etichetta che occorre imparare) oppure può mettere il discente, per così dire, in situazione, mostrandogli il mondo non come dovrebbe essere ma come è, e invitandolo ad agire di conseguenza, magari risparmiandogli con questa lezione di realismo delusioni e gaffe (l’etichetta dice che a tavola ci si comporta così, ma di fatto all’etichetta si può e a volte si deve derogare, a meno di non voler apparire goffi). La legge sull’EC e le linee-guida stanno naturalmente dalla parte dell’Ideale, basta leggerle. Naturalmente, perché tale, in generale, è il carattere dell’insegnamento scolastico; e per quel vizio di retorica che si è detto essere uno degli stigmi dell’italianità, soprattutto quando in gioco ci sono cose solenni come la Costituzione, la Resistenza, il Lavoro, e insomma un set di valori non soggetti a discussione e riforma.

 

Ma la retorica è una pessima maestra, e una delle cose capitali che bisognerebbe insegnare a scuola è a non essere dei fanatici. L’istruzione valoriale corre questo rischio, come sanno i tanti che hanno fatto catechismo o i pochi che sono stati allevati in una madrasa; e parte del rischio risiede nel fatto che l’istruzione valoriale produce non di rado sia l’effetto desiderato sia il suo contrario: non solo il fanatico che crede ciecamente, ma anche il fanatico che detesta i credenti tanto da volerli eliminare. Ebbene, il miglior antidoto al fanatismo resta sempre la cultura, e all’interno della cultura in special modo la letteratura, e in modo specialissimo la letteratura d’invenzione. Quale letteratura? Non certo quella che ha come scopo esplicito il perfezionamento morale dello studente. Non servirebbe dirlo, se il moralismo corrente non cercasse di contrabbandare per buoni libri quelli che sono tutt’al più dei libri buoni, e che oltre a traviare il gusto dei lettori più giovani li istupidiscono fingendo per loro un mondo di scelte morali elementari in cui il bene è il bene e il male è il male. Soprattutto a scuola, la letteratura non dovrebbe edificare ma spingere a riflettere sull’ambiguità delle cose umane. Letti come si deve, Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino (“E basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si trova dall’altra parte, come Pelle, dalla brigata nera…”) e i romanzi di Fenoglio o Meneghello hanno quest’effetto; o quel libro splendido (e a scuola ignorato, a differenza dei citati) che è Due anni senza gloria di Lodovico Terzi.

 

Ma per chiudere col sorriso questo discorso un po’ pesante, qualche settimana fa Feltrinelli ha pubblicato un libro dal titolo Io sono il potere. Si tratta del diario di un navigato giurista romano, capo di gabinetto in innumerevoli governi degli ultimi decenni, uno di quegli uomini di potere che restano immobili al loro posto (anche se il posto può leggermente cambiare, da un ministero a un Consiglio, da un Consiglio a un’Authority) mentre intorno si fanno e disfano maggioranze, vanno e vengono ministri, una di quelle persone a cui si pensa con amarezza quando si contempla l’immobilismo italiano, ma una di quelle persone a cui si pensa con gratitudine quando si riflette sul fatto che senza gente del genere la nostra politica estera la deciderebbe Luigi Di Maio. E’ un libro ben scritto (complimenti a Giuseppe Salvaggiulo, che ha raccolto la testimonianza di questo grand commis), divertente, istruttivo, ripugnante, perché mostra il lato oscuro dello Stato, quello che nei libri non si vede, quello di cui le prediche scolastiche sulla Costituzione più bella del mondo neppure contemplano l’esistenza; e tuttavia c’è, e agisce.

 

Ebbene, bisogna mettersi d’accordo sugli obiettivi dell’istruzione. Se l’obiettivo è far capire agli studenti in quale mondo realmente dovranno vivere, la lettura di un libro come Io sono il potere è tanto importante quanto la lettura della Costituzione: non per opporre la realtà all’ideale, i cattivi ai buoni, ma perché il confronto permette di ricavare una lezione molto preziosa, una lezione che le prediche non possono dare, e cioè che qualsiasi impresa umana, per quanto abilmente e nobilmente congegnata, deve venire a patti con le difficoltà della vita concreta, e che questi patti non sono deviazioni scellerate da un cammino virtuoso ma la normale amministrazione della vita associata, quando dall’iperuranio dei libri (o delle costituzioni) si scende sulla terra. L’ambiguità, appunto; il baco che rovina la mela; il legno storto. Cercavamo un bel libro di testo, da affiancare ai “Principi fondamentali” ben commentati? Eccolo.

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