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Viva la competenza! Per diventare medici non serve ragionare

Antonio Gurrado

Non pensateci, ragazzi. I nuovi test universitari cestinano le domande di logica

Milano. Lo so che è una forzatura, ma viene percorso da un brivido perverso chi pensa che, nei prossimi test d’ingresso a Medicina, il governo ha deciso di sostituire la logica con la Costituzione. Nel dettaglio: a settembre le aspiranti matricole di tutte le facoltà a numero chiuso affronteranno le solite sessanta domande, ventidue delle quali verteranno su cultura generale e logica; solo che le domande di logica saranno ridotte da venti a dieci, quelle di cultura generale cresceranno da due a dodici. Di là dal trionfalismo dei comunicati stampa – il ministro dell’Istruzione Bussetti parla di “quesiti più vicini alla sensibilità e alla preparazione dei candidati” – la lettera del decreto si fa fumosa quando viene ai contenuti: annuncia domande incentrate su “testi di saggistica scientifica o narrativa di autori classici o contemporanei, oppure su testi di attualità comparsi su quotidiani o su riviste generalistiche o specialistiche”, salvo estrarre dalla manica quesiti scelti “in coerenza con le indicazioni nazionali e le linee guida e in relazione alle attività che vengono svolte per Cittadinanza e Costituzione”.

 

Intendiamoci, la cultura generale è una santa cosa ed è sicuramente il caso di certificare che un futuro medico (ma anche architetto o veterinario) non sia miope prigioniero di competenze specifiche ma abbia anche uno sguardo complessivo sul mondo o, almeno, si accorga della sua esistenza. Il problema è la decurtazione delle domande di logica, con conseguente svalutazione della ragione: problema non di lana caprina poiché, in caso di ex aequo, si procede a stilare una classifica avulsa sulle sole risposte ai quesiti non di indirizzo. Si tralasciano cioè le risposte di chimica, biologia, matematica e fisica per far passare l’alunno che ha fornito più risposte esatte in cultura generale e logica. E’ evidente che il profilo umano che ne emergerà un domani, con domande incentrate sull’ambito socio-istituzionale, sarà molto diverso da quello che emergeva fino a ieri, quando la stragrande maggioranza di tali quesiti verificava la capacità di pensiero astratto. Questo governo che impropriamente si proclama eletto dal popolo non sembra fidarsi granché delle capacità intellettive del popolo che l’ha eletto, se presuppone che per andare incontro a sensibilità e preparazione dei candidati si debba evitare che ragionino troppo.

 

La logica è del resto è del resto il buco nero della didattica in Italia e risultò vana, qualche anno fa, una campagna ad hoc del Sole 24 Ore in favore dell’insegnamento della logica formale in tutti gli ordinamenti scolastici, indipendentemente dall’insegnamento della filosofia. Sarebbe invece stato oltremodo necessario, se considerate che tutti sono in grado di comprendere il semplicissimo modus ponens (se piove, si bagna l’asfalto; piove; quindi si bagna l’asfalto) ma tanti italiani scolarizzati vanno in tilt di fronte al poco più complesso modus tollens (l’asfalto non è bagnato: quindi piove o no?). Del resto, uno dei motivi di astio dei docenti nei confronti degli scorsi governi fu l’introduzione dei test di logica nel concorso per l’ammissione all’insegnamento di ruolo. Percentuali imbarazzanti di precari, gente laureata anche da decenni, si arenarono dinanzi a quesiti sulla falsariga di: “Tutti i toscani sono simpatici; Gennaro è toscano; quindi Gennaro è…”.

 

Se il popolo non ragiona, dunque, meglio fargli imparare una pappardella sulla Costituzione. L’idea di misurarne la capacità in base al senso della cittadinanza sembra realizzare i vagheggiamenti del filosofo caro ai fraintendimenti grillini, quel Rousseau che auspicava “in ogni Stato un codice morale, o una specie di professione di fede civile, che contenga positivamente le massime sociali che ciascuno avrebbe il dovere di ammettere: quest’opera”, spiegava, “mi sembra il libro più utile che sia mai stato composto e, forse, il solo necessario agli uomini”. Si iniziò così e si finì a ghigliottinare Lavoisier, scrivendo nella sentenza che lo condannava a morte: “La repubblica non ha bisogno di scienziati”.