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Ignoriamo la storia perché l'abbiamo ormai ridotta a materia edificante

Antonio Gurrado

La fusione con la geografia, un mostro assurdo senza senso

Siamo diventati una nazione ignorante in storia tanto che Sette ci ha fatto la copertina, con Garibaldi decorato da un fez come simbolo della confusione cronologica che impera nella testa di studenti anche universitari, per non parlare di adulti le cui lacune non verranno mai più radiografate da un esame o da un’interrogazione. La facile tentazione potrebbe essere confondere la causa con l’effetto e additare a responsabile la scelta del ministero dell’Istruzione che dalla prossima maturità farà scomparire il tema di storia, scatenando l’ira degli specialisti che hanno già condannato la futura Italia senza memoria, come se la memoria avesse un futuro in base a ciò che degli adolescenti scrivono nelle sei ore di panico della prima prova. Altrettanto facile sarebbe obiettare che il tema di storia veniva scelto da un miserando percentile e che, se non ci avesse pensato il ministro, ci avrebbero pensato gli alunni ad abolirlo non svolgendolo mai più. Le colpe in realtà vanno cercate tempo addietro e quelli di oggi – inclusi i balbettii dei parlamentari interrogati dalle Iene o le sviste di Antonio Scurati nel romanzo su Mussolini – non ne sono che i sintomi estremi, per certi versi trascurabili.

 

Nella scuola, ciò che ha contribuito più di tutto a rovinare la storia è stata la sua ibridazione. Ibridazione didattica, anzitutto, particolarmente evidente nell’indicazione di fonderla alla geografia nei bienni dei licei creando la ferale geostoria: un mostro che, nonostante la nobile ascendenza onomastica (il termine è stato coniato da Fernand Braudel nel secondo Dopoguerra), non gode di statuto epistemologico proprio, non è né storia né geografia. I danni sono ingenti. Agli alunni si insegna una materia che non esiste, i prof. devono fare i saltimbanchi nel tentativo di coniugare la spiegazione sull’Impero romano a quella sull’Unione europea, e soprattutto viene meno lo studio indipendente della geografia che costituisce la base più solida per studiare la storia. La geografia insegna infatti il dominio dell’uomo sullo spazio, la sua sistematizzazione razionale, e la storia di fatto inizia con la stanzialità dell’uomo; quando nel successivo triennio gli studenti vengono sottoposti allo studio del periodo che va (in teoria) dal 1000 al 2001, si rifugiano in sforzi mnemonici commoventi per collocare nel tempo eventi che non riescono ad ambientare nello spazio. E, se ve lo state chiedendo, sì, ci sono maturandi che non sono in grado di distinguere la Turchia dalla Tunisia o i boeri dai boemi.

 

Non saper leggere un atlante storico non è sufficiente a ignorare la storia. Ci vuole anche una buona dose di ibridazione burocratica che risalta dalla suddivisione degli insegnanti in classi di concorso che legano la storia a un’altra materia rendendola di fatto succedanea. In sostanza, l’insegnamento della storia viene abbinato alla filosofia nei licei e all’italiano negli altri istituti e ciò comporta inevitabili disagi: non tanto che la materia venga insegnata da qualcuno che non ha una laurea specialistica nel campo (si presuppone che i docenti debbano prepararsi comunque), quanto l’idea che la storia sia una ruota di scorta. Se il professore deve farla convivere con una materia ritenuta portante, tenderà a sottrarre alla storia ore di cui avrà bisogno per far capire bene Kant o Leopardi; se poi, come spesso avviene, avanzano spezzoni di cattedra, è più probabile che si tratti di ore di storia che verranno assegnate a docenti provvisori con un incremento parallelo del loro turnover e del disorientamento degli studenti, ai quali forse nessuno darà mai un metodo sicuro per orientarsi nel passato.

 

Se questi sono elementi che storici anche insigni ravvisano come deleteri alla competenza collettiva in materia, il colpo di grazia arriva invece da un fattore che viene unanimemente osannato come beneficio se non addirittura obiettivo dello studio della storia: l’ibridazione etica o civile, sarebbe a dire la convinzione che la storia sia maestra di vita per il presente. Nel tentativo di sottrarla all’arido nozionismo di date e nomi, negli ultimi decenni la storia è stata sottoposta a vari tentativi di renderla più appetibile (già Alberto Sordi, nel film tratto da “Il maestro di Vigevano” di Mastronardi, veniva vessato da un direttore che gli imponeva di drammatizzare la scoperta dell’America, facendola interpretare dal vivo dagli alunni acciocché la capissero dall’interno). Lì dove ci sarebbe stato bisogno di un processo di complicazione, ossia di maggiore attenzione ai sommovimenti più profondi della storia universale e alla disamina delle loro fonti, si è risposto con una semplificazione che ha portato a una scorciatoia: spiegare la storia come preparazione all’oggi, ridurla a materia edificante. L’illusione è stata che studiare la Resistenza o la Shoah o il terrorismo avrebbe forgiato generazioni migliori perché più consapevoli. Non solo non è stato così, evidentemente, altrimenti saremmo qui a lambiccarci sulla nostra ignoranza; anzi, il risultato dello spostare sul presente il baricentro della storia è stato il depotenziamento dello studio fine a se stesso, che è la radice di ogni conoscenza seria. Così studenti e insegnanti si sono chiesti quale importanza per la coscienza odierna potessero avere le pagine sulla donazione di Sutri, o sul conte-duca di Olivares, o sulla Zollverein, e hanno concluso che era più comodo andare a una conferenza-spettacolo contro tutte le dittature e tutte le mafie, cancellando la storia con la coscienza pulita.

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