(foto Ap)

cattivi scienziati

Come il “Neanderthal che c'è in noi” influenza i nostri tratti neuropsichiatrici

Enrico Bucci

Sempre più studi dimostrano come l'analisi del DNA antico promette di fornire una lente attraverso la quale possiamo ottenere informazioni su chi siamo come specie dal punto di vista dell’anatomia e del funzionamento del nostro cervello

La curiosità suscitata nei lettori dagli ultimi miei brevi scritti circa l’evoluzione del nostro cervello e il ruolo in questo del DNA non codificante ha portato qualcuno, per associazione di idee, a chiedermi quale sia poi il ruolo generale dell’informazione genetica nel plasmare il nostro cervello, e se possiamo rintracciare in questo ruolo l’influenza di DNA ereditato da antiche specie umane, ormai non più presenti. Si tratta di un campo di indagini moderne molto interessante e ancora nel suo sviluppo iniziale, ma proverò a rispondere esaminando il contributo genetico che una delle specie con cui ci siamo più a lungo affiancati e ibridati, l’uomo di Neanderthal, ha lasciato nei nostri cervelli.

 

In media, eccettuate le popolazioni africane, nel nostro genoma si ritrovano varianti di geni ereditati da Neanderthal in una proporzione variabile tra 1% e 2%, che, come abbiamo già discusso, regolano differenzialmente il sistema immunitario dei loro portatori moderni. Ma vi è ben altro che è stato dimostrato, almeno preliminarmente. Per quanto riguarda il nostro cervello e la sua anatomia, in particolare, si è trovato che gli individui moderni che portano più varianti genetiche di origine Neanderthal hanno forme del cranio che assomigliano maggiormente ai resti cranici di Neanderthal e contemporaneamente le regioni del cervello sottostanti mostrano variazioni strutturali che correlano con il grado di introgressione di DNA antico. Inoltre, utilizzando la risonanza magnetica funzionale allo stato di riposo, si è visto come la connettività della stessa area del cervello interessata dalla variazione morfologica con i circuiti neurali responsabili dell’elaborazione visiva risulta accentuata negli individui portatori delle varianti antiche, a spese della connettività con altre aree legate all’elaborazione sociale. Siccome poi ancora le stesse regioni anatomiche influenzate dal DNA antico sono state correlate da ampi studi genomici al rischio di schizofrenia in individui moderni, ci si è chiesti se il totale di varianti genetiche di tipo Neanderthal riscontrabili nel genoma di singoli esseri umani attuali sia correlato anche al rischio di schizofrenia.  I risultati di uno studio recente sono molto interessanti.

In primo luogo, esaminando quattro studi caso-controllo indipendenti per un totale di 9.362 individui, gli individui con schizofrenia presentavano una variazione genetica di derivazione neandertaliana inferiore rispetto ai controlli. In secondo luogo, in 49 pazienti ricoverati con schizofrenia e non medicati, avere una maggior quota di varianti antiche risultava in sintomi meno gravi. Infine, esaminando mediante PET 172 individui sani, una maggiore introgressione di Neanderthal era significativamente associata a una minore capacità di sintesi della dopamina nello striato e nel ponte, che è di fondamentale importanza nella fisiopatologia e nel trattamento di psicosi. Nel loro insieme, questi risultati supportano la nozione di un’origine relativamente moderna di malattie neurologiche. Inoltre, la relazione tra introgressione di DNA neandertaliano e la sintesi di dopamina suggerisce un potenziale meccanismo non solo connesso al rischio di sviluppare schizofrenia, ma anche alla modulazione di moltissime diverse funzioni cognitive e comportamentali della nostra specie. Oltre queste evidenze indirette, ottenute da correlazione statistica fra la presenza di DNA neandertaliano e certi tratti specifici, si sono cominciati ad ottenere anche dati diretti circa gli effetti delle antiche varianti che alcuni individui moderni possiedono e i meccanismi molecolari che portano allo sviluppo e al funzionamento del cervello. Un gruppo di ricerca ha recentemente generato organoidi cerebrali a partire da cellule staminali pluripotenti umane in cui era stata introdotta la versione arcaica di un gene chiamato NOVA-1.

 

Questi organoidi hanno mostrato diverse alterazioni a livello molecolare, nonché nella morfologia e nella sinaptogenesi, fornendo l’evidenza diretta di un certo numero di alterazioni rilevanti per lo sviluppo e la funzione del cervello umano moderno. Al momento attuale e almeno da queste prime prove indipendenti, sembra proprio che le varianti antiche del DNA diffuso nella nostra specie siano in grado di influenzare anche certi aspetti cognitivi di rilievo. Sebbene il lavoro in questo campo sia ancora agli inizi e la conoscenza degli effetti genetici in neuropsichiatria sia a sua volta lontana dall’essere completa, lo studio del DNA antico promette di fornire una lente attraverso la quale possiamo ottenere informazioni su chi siamo come specie dal punto di vista dell’anatomia e del funzionamento del nostro cervello, sulla nostra notevole variabilità interindividuale e su come alcuni tratti neuropsichiatrici favorevoli o sfavorevoli possano essere influenzati dal “Neanderthal in noi”.

Di più su questi argomenti: