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Cattivi Scienziati

La caccia ai lupi non risolve il problema. Vanno protetti

Enrico Bucci

La popolazione dei predatori non è una vera minaccia per gli allevamenti. La loro preda principale sono i cinghiali, che proliferano senza controllo. Da guardare l'esempio della Majella, in Abruzzo

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Nel 2022, secondo i dati Ispra la popolazione italiana di lupi ha toccato i 3300 esemplari stimati, occupando ormai quasi tutti gli habitat idonei della nostra penisola.

Secondo la relazione consegnata, inoltre, dal punto di vista della composizione genetica della specie, il monitoraggio appena concluso ha permesso di appurare che “il 72,7 per cento dei lupi campionati non mostra alcun segno genetico di ibridazione recente o antica con il cane domestico, l’11,7 per cento mostra segni di ibridazione recente con il cane domestico e il 15,6 per cento mostra segni di più antica ibridazione (re-incrocio con il cane domestico avvenuto oltre approssimativamente tre generazioni nel passato).”

 

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Questi risultati indicano che la popolazione di lupi del nostro paese è molto cresciuta negli ultimi anni, soprattutto nelle regioni alpine, e che è ancora relativamente integra da un punto di vista genetico.

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I dati Ispra, inoltre, permettono di accertare anche l’impatto che questa popolazione di predatori ha sul patrimonio zootecnico italiano: in 5 anni di studio, leggiamo, “a seguito dei 17.989 eventi di predazione totali, sono stati registrati come predati un totale di 43.714 capi di bestiame, per una media di circa 8.742 capi ogni anno. Tra i capi predati, l’82,0 per cento erano ovicaprini, pari a una media di 7.171 capi annui; il 14,2 per cento erano invece bovini, pari a una media di 1.439 capi annui; il 3,2 per cento dei capi indennizzati erano equini, per una media di 280 capi annui; delle restanti predazioni indennizzate, lo 0,1 per cento si riferiva a suini, lo 0,1 per cento riguardava specie avicole e lo 0,4 per cento era rappresentato da predazione su altre specie o da casi non determinati.”

 

Ora, se consideriamo le popolazioni di bovini di allevamento, otteniamo per l’Italia intorno a sei milioni capi, e circa otto milioni per quanto riguarda gli ovicaprini.

Da questi numeri, e pur volendo ammettere anche una sottostima di tre volte degli eventi di predazione, si capisce che il prelievo annuo totale di capi di allevamento da parte dei lupi italiani è nell’ordine dei millesimi della popolazione esistente, per cui certamente il fenomeno, nei suoi numeri complessivi, produce un danno molto limitato agli allevatori; la sola peste suina, per fare un paragone, ha richiesto uno stanziamento di 15 milioni di euro quest’anno, e le varie malattie che affliggono il patrimonio zootecnico italiano causano perdite economiche annue ben maggiori.

 

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In questa prospettiva, vanno considerati anche i benefici ampiamente dimostrati che la predazione da parte del lupo sulla fauna selvatica, di gran lunga prevalente rispetto al prelievo di animali domestici, apporta all’ecosistema anche quando parzialmente antropizzato.

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L’effetto a catena sulle catene trofiche, che si esercita principalmente attraverso il controllo delle popolazioni di ungulati e altri animali che fungono da consumatori primari, è stato trovato in una moltitudine di ambienti e nazioni diverse, da moltissimo tempo.

La cosa è particolarmente interessante in Italia: il cinghiale, infatti, è da tempo documentato come la principale preda del lupo, come per esempio ha pubblicato Sandro Lovari nel 2016.

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Ora, alla luce di quanto detto, oltre che ingiustificata da un punto di vista economico e anche senza considerare i benefici e importanti effetti ecosistemici del lupo, la stupida proposta di riaprire la caccia al grande predatore nel nostro paese è paradossalmente in contrasto con il contemporaneo voler affrontare il problema della proliferazione incontrollata dei cinghiali: i lupi sono nel nostro territorio proprio i maggiori predatori di questa specie, e andrebbero quindi protetti e incrementati, non certo presi a fucilate, se l’obiettivo è la diminuzione delle popolazioni di cinghiale.

Invece, si può fare molto di più e molto meglio per gli allevatori, soprattutto quelli piccoli e soprattutto quelli di montagna, danneggiati dal predatore.

 

La lezione da imparare è quella dell’Abruzzo. Qui, da sempre, l’allevamento ovino è attività molto praticata, e da sempre sopravvive il lupo – non si è mai estinto. Guardiamo per esempio la Majella, ove allevamenti di pecore libere convivono con diversi branchi di lupi. Innanzitutto, da tempo sono state standardizzate le procedure di indennizzo dei capi predati e incrementate le misure di prevenzione in collaborazione con gli allevatori (come la diffusione dei cani da pastore). Inoltre, l’ente parco procede all'acquisto dei capi anziani non altrimenti venduti (per l’alimentazione dei lupi in area faunistica) e ha un programma di “restituzione della pecora” predata, primo tentativo in Europa di andare oltre l’indennizzo economico dei danni (progetto "Il Lupo riporta la pecora").

La caccia ai predatori non ha mai risolto alcun problema, perché la loro scomparsa crea più problemi di quanti sembra risolverne; e se abbiamo oggi un problema con i cinghiali, dovuto anche alla improvvida e dissennata reintroduzione a scopo venatorio, dovremmo pensarci bene prima di eliminare chi è nostro alleato nella mitigazione di quel problema.

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