Tra haters e ragione

Può un botanico essere odiato da un gruppo di estremisti vegani? Accadde a Stefano Mancuso

Lo scrittore e docente ci racconta una piccola storia emblematica dei tempi che corrono

Succede sempre più spesso, sul web e fuori, e a persone di professioni diversissime: fai o dici qualcosa, o lo dicono le tue opere, e per qualche motivo, di solito appeso a mezza parola – un titolo, un concetto preso di peso e non approfondito – quello che fai o dici diventa oggetto di campagne (anche bislacche) orchestrate da malmostose categorie di diffidenti, criticoni e haters, veterani o improvvisati. E in giorni come questi, in cui attorno al green pass e in generale alla scienza che si occupa di lotta al Covid fioriscono e ohimè rifioriscono leggende nere, con conseguente profluvio di stupidario internettiano sulle bacheche di questo e quel malcapitato, ci è tornata alla mente la storia quasi incredibile che coinvolse qualche tempo fa Stefano Mancuso, scrittore, botanico, docente di Arboricultura ed etologia vegetale all’Università di Firenze e fondatore del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale per gli studi sul comportamento delle piante. Mancuso ha scritto molti libri sulle piante (l’ultimo è “La pianta del mondo”, Laterza, 2020), sul loro “sistema radicale” sensibile a vari stimoli, dalla temperatura alla pressione ai suoni all’umidità, sulla loro percettibilità e “intelligenza”, intesa come capacità di risolvere i problemi: le piante trovano ostacoli e risolvono, da millenni, adattandosi a tutti gli ambienti, come se avessero una specie di “cervello diffuso”.  

Nulla avrebbe dunque fatto a immaginare al professor Mancuso che i suoi scritti avrebbero colpito in negativo l’immaginazione (suscettibilità?) di alcuni gruppi di oltranzisti americani vicini al veganesimo che, ricorda Mancuso, “senza alcuna base di ricerca scientifica a supporto”, ma sulla scorta di alcune astrusità balenate loro in testa, avevano trovato oltraggiosi gli studi sulla “consapevolezza” delle piante rispetto all’ambiente che le circonda. E avevano cominciato a scrivere a Mancuso lettere a mano, addirittura, accusandolo di non ben precisati crimini di lesa sensibilità alla causa di coloro che si cibano solo di vegetali. Come dire: tu stai dicendo a noi che mangiamo solo vegetali che i vegetali hanno una loro “intelligenza”? Ci vuoi far sentire in colpa? E perché? Che tu sia un oltranzista in altro senso, un anti-animalista, uno che ci dice che animali e piante sono la stessa cosa? “Da notare”, dice oggi Mancuso, “che io ho un’alimentazione quasi del tutto vegetariana e mangio carne una volta al mese, e che la mia posizione rispetto ai vegetariani e vegani è di massimo rispetto. Ma non è questo il punto. Ricordo che cercavo di rispondere argomentando in modo razionale: beh, noi siamo animali, qualcosa dobbiamo mangiare. Io sostengo sì che le piante abbiano una consapevolezza delle variazioni nell’ambiente circostante, ma sostengo anche che, dovendo noi mangiare, di sicuro facciamo meno danni, in scala, a livello di minaccia costante alla vita di alcune specie, mangiando vegetali che animali”. E quelli si convincevano? Macché. Perché Mancuso era accusato “tanto per”, e cioè in quanto simbolo di minaccia – minima – a certezze labili (in questo caso: se le piante sono esseri inanimati posso mangiare piante senza senso di colpa). E oggi il professore ripete, rassicurando, che quelle erano frange estremiste invasate, e le associa alla categoria dei mattoidi che, perlopiù Oltreoceano, credono all’esistenza dei rettiliani e quasi quasi diventano davvero terrapiattisti. E sì, fino a pochi anni fa si poteva dire: meno male che stanno in America. Non fosse che oggi il meccanismo della svalutazione a casaccio sulla base di qualcosa che epidermicamente offende si è diffusa anche qui. Ne sono piene le bacheche. “E’ un virus”, sospira Mancuso, sperando che anche per questo si trovi presto un valido vaccino. 

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