cattivi scienziati

È necessario un lockdown? Perché non possiamo fare questa domanda alla scienza

Enrico Bucci

La scienza non può dirlo: si tratta di bilanciare i nostri interessi, i doveri e i diritti

Possiamo chiedere a uno scienziato, un clinico, un ricercatore, se è necessario un lockdown? Non in questi termini, come cercherò nel seguito di spiegare. Ciò che uno scienziato può fare è cercare di predire quali saranno gli effetti di diversi tipi di azioni, sulla base dei migliori dati disponibili e delle migliori teorie matematiche che consentano di stimare tali effetti. E già se parliamo di effetti, è necessario precisare a quali di essi ci si sia limitati nella previsione fornita. Quelli sul virus? Quelli sugli ospedali? Quelli sull’economia? Quelli sulla nostra psiche? E potrei continuare all’infinito. Di fatto, la previsione di uno scienziato può essere più o meno accurata, ma è ristretta a un dominio specifico, che in genere è quello di sua competenza.

 
Di conseguenza, è innanzitutto bene chiarire che uno scienziato, o un gruppo di ricerca, tenderanno a darci una risposta – in media più affidabile di quella data senza ricorrere al metodo scientifico – per quel che riguarda gli effetti su un certo e predeterminato settore di interesse e di competenza specifici. Pertanto, nel chiedere per esempio a un epidemiologo se è opportuno un lockdown, ciò che l’epidemiologo mi risponderà (se è onesto e attento alla comunicazione) è che un lockdown è in grado di diminuire la circolazione del virus, in una misura che potrà stimare con un grado di incertezza più o meno grande sulla base delle informazioni che ha a disposizione. Forse questa risposta apparirà insoddisfacente a chi cerca semplicemente una rassicurazione in un’indicazione precisa e assertiva circa l’opportunità di una data azione, senza andare tanto per il sottile; il punto è che dagli scienziati noi non dovremmo attenderci questo tipo di risposte, ma considerazioni molto più analitiche, da inquadrare nel limite del loro dominio di applicazione.

 
Potremmo quindi immaginare di rivolgerci a un gruppo di scienziati, con competenze diverse, ognuno dei quali possa stimare le conseguenze di una misura nel proprio rispettivo ambito, fornendoci così una stima ad ampio raggio e completa di margini di incertezza degli effetti, per esempio, della chiusura delle scuole, in termini di circolazione virale, di economia, di benessere psicofisico e di quante altre dimensioni riusciamo a immaginare. Questo, di fatto, è quello che si cerca di ottenere riunendo esperti di diversa provenienza in comitati come il Cts, cercando di porre la massima cura nella loro selezione.

  
Tuttavia, non dovremmo pensare nemmeno in questo caso di ottenere una raccomandazione circa l’opportunità di un determinato modo di agire. Perché? Perché l’obiettivo da raggiungere è complesso. Quanto debito pubblico siamo disposti a tollerare, rispetto alla diminuzione del rischio per la salute di cui beneficiamo in un lockdown? Quanti anni di studio persi e quante sofferenze psichiche possiamo concederci di causare, per evitare di essere continuamente a rischio di infezione? Oppure, invertendo l’ordine dei fattori nelle domande: quanti morti siamo disposti a tollerare, per non danneggiare le vendite dei commercianti? Quanto vogliamo far correre il virus, per non rinunciare a parte della nostra privacy installando una app? Quanti ricoverati in terapia intensiva ci vogliono, prima che siamo disposti a comprimere la nostra libertà di movimento?

  
Queste domande non sono domande di tipo scientifico, ma domande che attengono al bilanciamento dei nostri interessi, dei nostri doveri e dei nostri diritti. Gli scienziati, al meglio delle loro possibilità, possono darci indicazioni su cosa succederebbe se intraprendessimo una certa strada, ma l’obiettivo che si vuol raggiungere è l’indicazione che essi devono ricevere, non dare. Non spetta a loro – se non insieme agli altri, come cittadini dotati di certi diritti – di indicare quale sia il miglior compromesso fra i diversi obiettivi da contemperare.

  
Per prendere questo tipo di decisioni, il modo migliore è quello della democrazia liberale, perché è quella capace di portare a confronto il massimo numero di interessi contrastanti, rappresentati dalla politica di parte, con i metodi che le istituzioni e le leggi hanno fissato. In questo gioco, agli scienziati tocca portare i fatti e l’analisi quantitativa, perché non prevalga solo la parte più forte o il miglior oratore; e  a questo schema bisogna cercare di non derogare, né da parte degli scienziati preoccupati per il bene pubblico, né da parte del governo e dell’amministrazione, che devono assumersi la responsabilità delle decisioni e della loro esecuzione senza ripararsi dietro improbabili direttive di organi tecnico-scientifici.

 

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