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I criteri per evitare che in Italia la pseudoscienza vinca in tribunale

Gilberto Corbellini e Luca Pani

Le discutibili sentenze di Consiglio di stato e Cassazione potevano essere evitate: bastava seguire lo standard Daubert

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Anche nell’emergenza Covid, i giudici sembrano pensare che il loro compito non sia quello, fondamentale e che solo loro possono svolgere in uno stato di diritto, di controllare che le leggi e le regole siano state rispettate, servendosi in modo imparziale e sulla base degli standard definiti dalla comunità scientifica di esperti privi di qualsivoglia conflitto di interessi, chiamati a redigere e discutere le perizie presentate in tribunale. La sentenza del Consiglio di stato che autorizza la prescrizione off-label dell’idrossiclorochina, grazie a un incredibile assist di Aifa, e la sentenza della Corte di Cassazione, che dando ragione a un “esperto” incompetente e antivaccinista decide l’esistenza di un nesso di causalità tra una batteria di vaccinazioni e un caso individuale di leucemia, sono episodi che nello specifico sembrano dire poco. Sono derubricati come decisioni prese a fronte di dati incerti o non univoci. Ma non è vero che i dati erano incerti, bensì sono stati organizzati per renderli tali. Basta studiare i problemi usando la letteratura scientificamente accreditata ed è trasparente come stanno i fatti. 

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Anche nell’emergenza Covid, i giudici sembrano pensare che il loro compito non sia quello, fondamentale e che solo loro possono svolgere in uno stato di diritto, di controllare che le leggi e le regole siano state rispettate, servendosi in modo imparziale e sulla base degli standard definiti dalla comunità scientifica di esperti privi di qualsivoglia conflitto di interessi, chiamati a redigere e discutere le perizie presentate in tribunale. La sentenza del Consiglio di stato che autorizza la prescrizione off-label dell’idrossiclorochina, grazie a un incredibile assist di Aifa, e la sentenza della Corte di Cassazione, che dando ragione a un “esperto” incompetente e antivaccinista decide l’esistenza di un nesso di causalità tra una batteria di vaccinazioni e un caso individuale di leucemia, sono episodi che nello specifico sembrano dire poco. Sono derubricati come decisioni prese a fronte di dati incerti o non univoci. Ma non è vero che i dati erano incerti, bensì sono stati organizzati per renderli tali. Basta studiare i problemi usando la letteratura scientificamente accreditata ed è trasparente come stanno i fatti. 

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Come mai alcuni giudici non sembrano accettare che le prove nel contesto di una questione tecnico-scientifica siano stabilite con la logica delle metodologie scientifiche e sulla base della deontologia giuridica (indipendenza, imparzialità e dovere di aggiornamento)? Pur dovendo sia il giudice sia lo scienziato tentare di rimanere imparziali di fronte ai fatti, alla fine il giudice deve emettere un giudizio che risponde ad aspettative sociali fondate su valori. In quale misura le credenze personali del giudice e i condizionamenti sociai possono essere controllati e non compromettere l’uso della scienza, dipende da quanto la legge riesce effettivamente a proteggere la funzionalità e il carattere obiettivo del dato scientifico, rispetto alle pressioni e alle aspettative che, se non sono razionalmente governate, preferiranno seguire le derive emotive o i pregiudizi, e affermare valori più intuitivi. Su questo piano una parziale, certo molto parziale, soluzione ci sarebbe. 

 

Nel contesto di una sentenza del 1993 che assolveva la casa farmaceutica Merrell Dow per la commercializzazione di un farmaco per donne in gravidanza, sospettato di gravi effetti collaterali, la Corte Suprema degli Stati Uniti metteva a punto uno standard federale per l’ammissibilità delle prove scientifiche che è diventato giurisprudenza per molti stati in quel paese. Fino a quel momento, per ammettere una prova scientifica in tribunale bastava un “consenso generale” sulla validità dello strumento/spiegazione di accertamento dei fatti usati dall’esperto. Anche sulla scientificità della psicoanalisi si è avuto per lungo tempo un consenso generale e gli psicoanalisti sono stati usati come periti, mentre non ha nulla a che vedere con la scienza e i suoi metodi.

 

La sentenza Daubert metteva da parte l’autorevolezza dell’esperto in quanto tale, sempre mal definita, mettendo l’enfasi sul metodo scientifico nella sua interezza, da cui derivavano rilevanza e affidabilità della conoscenza scientifica o della tecnica utilizzata e venivano qualificati il riferimento all’accettabilità generale del procedimento tecnico o delle teorie scientifiche utilizzate. Per avere dignità scientifica, la testimonianza dell’esperto in tribunale deve far riferimento a ipotesi ed esperimenti, controllabili e falsificabili (ovvero testabili empiricamente), i cui risultati sono stati pubblicati dopo un processo di peer review. Devono essere noti il tasso di errore, così come standard e controlli, relativamente ai dati prodotti, che devono avere un senso all’interno di teorie e tecniche accettate dalla comunità scientifica accademicamente rilevante.

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Dopo la sentenza Daubert e altre sentenze successive, i giudici statunitensi ebbero gli strumenti per escludere la testimonianza in tribunale sia quando mancavano i presupposti metodologici agli argomenti dell’esperto, sia quando questi usava l’affidabilità della metodologia per arrivare a conclusioni non giustificate. Ovviamente, il funzionamento dei criteri Daubert non è perfetto, anche perché la scienza produce dati che nella maggior parte dei casi hanno un valore probabilistico. E, soprattutto, serve che ci sia un giudizio imparziale dove vengano applicati correttamente.

 

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In Italia gli effetti degli standard Daubert si sono avuti su tre sentenze. Nella sentenza Franzese (SS.UU., 11 settembre 2002, n. 30328) si trattava di giudicare di una condotta omissiva ritenuta causalmente collegata con un decesso. La condanna fu comminata sulla base di una stima probabilistica, e il supremo collegio introduceva una distinzione tra probabilità logica e probabilità statistica, chiedendo che fosse dimostrata l’idoneità e la congruità dello strumento tecnico-scientifico utilizzato o comunque della legge di copertura a cui ci si richiama per ottenere come esito il caso in questione. Più articolato il riferimento agli standard Daubert nella sentenza Cozzini (Sez. IV, 13 dicembre 2010 [17 settembre 2010], n. 43786), dove si è trattato di decidere quale fra due teorie sull’eziologia del cancro dovuta a esposizione all’amianto fosse scientificamente fondata. Il supremo collegio ha scritto che “per valutare l’attendibilità di una teoria occorre esaminare gli studi che la sorreggono”, e ha proseguito riprendendo nella sostanza i criteri Daubert, in una forma meno schematizzata e specifica, ma epistemologicamente più ragionata. Infine, il 17 giugno 2019 arrivava una terza sentenza della Corte di Cassazione (n. 26568/2019) che, assolvendo alcuni medici dall’accusa di aver causato la morte di un paziente per mancati approfondimenti diagnostici, stabiliva che il nesso di causalità tra la condotta di un medico e il danno lamentato da un paziente si identifica in base a leggi scientifiche. 

 

Quest’ultima sentenza decideva che le leggi scientifiche utilizzabili devono avere quattro caratteristiche: generalità, controllabilità, grado di conferma e accettazione da parte della comunità scientifica. L’ultimo requisito, cioè in che misura la comunità ne fa uso e la considera corroborata, per la Corte è il più importante e, in pratica, riassume in sé tutti i criteri Daubert. Se questi criteri fossero stati applicati anche solo in parte, non avremmo avuto nessuno dei casi che inducono a pensare che la scienza in alcuni tribunali, a volte, non è stata gradita, ovvero non sarebbe accaduto di avere sentenze basate sulla pseudoscienza.

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