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Il prof. Marras ci racconta la storica operazione alle gemelle siamesi del Bambino Gesù

Piero Vietti

“Quel silenzio dopo averle separate”. Dietro l'intervento c’è eccellenza, tecnologia, creatività e una compagnia umana. Parla il neurochirurgo

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Roma. “Quando le abbiamo separate c’è stato un silenzio rumorosissimo. Eravamo estasiati, era qualcosa di mai vissuto prima, era avvenuto un fatto straordinario, non solo un gesto tecnico riuscito bene. Questo evento segna il futuro di chi era lì: ognuno di noi ha trovato un senso in più nella professione a cui dedica gran parte della propria vita”. E’ soprattutto una storia di sguardi quella di Ervina e Prefina, due bambine che hanno compiuto due anni lo scorso 29 giugno: le abbiamo viste in un video festeggiare agitando le mani, felici in braccio alla mamma che spegneva le candeline per loro, tra gli applausi di medici e infermieri dell’ospedale Bambino Gesù a Roma. Soltanto da poche settimane queste due bimbe nate in un villaggio a 100 chilometri da Bangui, la capitale della Repubblica Centrafricana, e oggi famose in tutto il mondo, possono guardarsi in faccia, possono vedere insieme le stesse cose. Gemelle siamesi nate unite per la nuca, colpite da una malformazione rarissima che si chiama craniopago, sono state separate lo scorso giugno grazie a una serie di interventi unici nella storia della medicina. Condividevano scatola cranica, pelle, un pezzo di cervello, gran parte del sistema venoso. Ma non lo sguardo sulle stesse cose. Nelle foto di quando erano ancora unite sorridono, nonostante tutto. Sorride anche la mamma, che non poteva immaginare di finire a Roma con le sue bambine, incontrata e abbracciata da Mariella Enoc, la presidente del Bambino Gesù, nel luglio del 2018. Enoc era andata a vedere come procedevano i lavori di un ospedale voluto dal Papa a Bangui, ha saputo di Ervina e Prefina ed è andata a prenderle. “Quando si incontrano vite che possono essere salvate, va fatto – ha detto – Non possiamo e non dobbiamo voltare lo sguardo dall’altra parte”. Ha chiesto di occuparsene a Carlo Marras, responsabile di neurochirurgia del suo ospedale. Lui ha detto sì, ce l’ha fatta e adesso lo racconta al Foglio, raccontandosi. Quando lo incontriamo sorride da dietro agli occhiali. Ha appena fatto un’intervista con una tv cilena – lo cercano da tutto il mondo ora. “Si parla tanto di Marras – dice il professore senza nascondere l’orgoglio per la fama improvvisa (“chi non è un po’ narciso?”) – ma Marras esiste perché esistono gli altri”. Gli altri sono i colleghi dell’équipe medica che ha operato le bambine, ma non solo. Quando parla di sé Marras non parla quasi mai di sé e basta, c’è sempre un rapporto, un’amicizia, un compagno di viaggio, un maestro, qualcuno che sta sulla soglia di ciò che racconta.

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Roma. “Quando le abbiamo separate c’è stato un silenzio rumorosissimo. Eravamo estasiati, era qualcosa di mai vissuto prima, era avvenuto un fatto straordinario, non solo un gesto tecnico riuscito bene. Questo evento segna il futuro di chi era lì: ognuno di noi ha trovato un senso in più nella professione a cui dedica gran parte della propria vita”. E’ soprattutto una storia di sguardi quella di Ervina e Prefina, due bambine che hanno compiuto due anni lo scorso 29 giugno: le abbiamo viste in un video festeggiare agitando le mani, felici in braccio alla mamma che spegneva le candeline per loro, tra gli applausi di medici e infermieri dell’ospedale Bambino Gesù a Roma. Soltanto da poche settimane queste due bimbe nate in un villaggio a 100 chilometri da Bangui, la capitale della Repubblica Centrafricana, e oggi famose in tutto il mondo, possono guardarsi in faccia, possono vedere insieme le stesse cose. Gemelle siamesi nate unite per la nuca, colpite da una malformazione rarissima che si chiama craniopago, sono state separate lo scorso giugno grazie a una serie di interventi unici nella storia della medicina. Condividevano scatola cranica, pelle, un pezzo di cervello, gran parte del sistema venoso. Ma non lo sguardo sulle stesse cose. Nelle foto di quando erano ancora unite sorridono, nonostante tutto. Sorride anche la mamma, che non poteva immaginare di finire a Roma con le sue bambine, incontrata e abbracciata da Mariella Enoc, la presidente del Bambino Gesù, nel luglio del 2018. Enoc era andata a vedere come procedevano i lavori di un ospedale voluto dal Papa a Bangui, ha saputo di Ervina e Prefina ed è andata a prenderle. “Quando si incontrano vite che possono essere salvate, va fatto – ha detto – Non possiamo e non dobbiamo voltare lo sguardo dall’altra parte”. Ha chiesto di occuparsene a Carlo Marras, responsabile di neurochirurgia del suo ospedale. Lui ha detto sì, ce l’ha fatta e adesso lo racconta al Foglio, raccontandosi. Quando lo incontriamo sorride da dietro agli occhiali. Ha appena fatto un’intervista con una tv cilena – lo cercano da tutto il mondo ora. “Si parla tanto di Marras – dice il professore senza nascondere l’orgoglio per la fama improvvisa (“chi non è un po’ narciso?”) – ma Marras esiste perché esistono gli altri”. Gli altri sono i colleghi dell’équipe medica che ha operato le bambine, ma non solo. Quando parla di sé Marras non parla quasi mai di sé e basta, c’è sempre un rapporto, un’amicizia, un compagno di viaggio, un maestro, qualcuno che sta sulla soglia di ciò che racconta.

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“Dopo che Enoc ha sottoposto il caso a me e al dottor Pietro Bagolan – dice – non conoscendo l’argomento ho letto tutta la letteratura che parla di questa malformazione. In Europa non esiste, e nessuna operazione su quel tipo di gemelle siamesi aveva avuto risultati positivi in passato. Di quattro coppie di bambine descritte con questa anomalia due sono morte in corso di intervento, di una si è persa traccia, e l’ultima, negli anni Ottanta, era stata separata ma con esito sfavorevole: una bambina è rimasta in stato vegetativo, l’altra è morta dopo l’operazione”. Aveva senso riprovarci qualche decennio dopo? “Avevamo una grossa responsabilità: dopo avere studiato il caso c’è stata una fase per capire il senso di intraprendere questo percorso: parliamo di pazienti che nell’80 per cento dei casi muoiono bambini, e comunque difficilmente superano i 20 anni. Resta la domanda: l’intervento che farò ci porterà a un successo? E se sì, che cosa posso fare per considerare un eventuale percorso chirurgico?”. Marras parlerà di “percorso” molte volte durante la chiacchierata con il Foglio. E’ una parola chiave per capire che un’operazione del genere non solo non si improvvisa, ma coinvolge decine di persone in un lungo lasso di tempo durante il quale entrano in gioco certamente la scienza e la medicina, ma anche il rapporto con i pazienti, la famiglia, le convinzioni personali, l’affiatamento, persino la musica e i libri. E lo sguardo di chi opera.

 

Tutto è stato utile a capire se tentare l’intervento sarebbe stato giusto. “Io ho degli strumenti personali maturati nella mia vita professionale con cui posso arrivare a dare un giudizio – spiega Carlo Marras – Ma davanti a una situazione del genere, e a una problematica etica, la mia semplice visione non bastava: sono il responsabile della neurochirurgia ma rappresento anche un gruppo di professionisti e lavoro in un ospedale dove il tema etico è particolarmente sentito”. Cosa si poteva fare per loro? “Ho parlato con don Luigi Zuccaro, che coordina l’attività di bioetica, e insieme abbiamo condiviso l’idea di sottoporre al comitato etico del Bambino Gesù un percorso per arrivare a separare le bambine”. Questo lavoro preliminare è importante come quello che poi porta all’intervento. “Non potevo essere l’unico a decidere, avevo bisogno della visione dei saggi. Che ovviamente non avrebbero detto ‘lo devi fare’ o ‘non lo devi fare’, ma potevano darmi una mano a decidere”. E’ nato il Protocollo Craniopago, “creato ad hoc e modificato man mano che si andava avanti, a cui tutti davano il loro contributo. Un percorso preciso che nasceva da esperienze di siamesi separati in passato ma che è stato aggiornato: uno strumento rigoroso partecipato anche dal comitato etico nella figura di don Zuccaro”. Fatto il protocollo, bisognava occuparsi della tecnologia. “I quattro interventi precedenti sono andati male non perché i medici non fossero bravi, ma perché vivevano in un’epoca in cui non c’era la tecnologia che abbiamo oggi. Il nostro merito sta nell’avere interpretato il tempo. Con il professor Alessandro Inserra, che mi ha sostenuto moltissimo, nel 2019 abbiamo partecipato al primo congresso mondiale sui gemelli siamesi, a New Delhi. Lì c’era la massima autorità della neurochirurgia per questi casi, James Goodrich, che è poi morto di Covid lo scorso aprile. Lui ci ha dato un suo parere, evidenziando l’alto rischio di mortalità o disabilità delle bambine dopo l’intervento. Anche questo è stato sottoposto al comitato etico dell’ospedale: alla fine c’è stata una decisione unanime sul percorso da intraprendere, che doveva puntare a un esito favorevole per entrambe le bambine. Nel momento in cui, andando avanti nel percorso, questa possibilità fosse stata in forse, ne avremmo ridiscusso. Non potevamo garantire la certezza del risultato, ma la prospettiva di un percorso di cura rivolto a entrambe le bambine, sì”. E’ dopo New Delhi che Marras ha “la percezione di essere parte di un gruppo internazionale: non era più un fatto che riguardava il nostro ospedale, ma in generale la cura e il percorso di cura che l’uomo rivolge agli altri”.

 

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Non ha fatto mai un passo da solo: “Non avendo esperienza di craniopago mi sono confrontato con tutti gli specialisti del nostro ospedale e loro a loro volta con altri colleghi. Una persona che mi ha aiutato tantissimo è stato Sergio Picardo, l’anestesista responsabile. Un altro è stato Sergio Giombini, un chirurgo che ora si è ritirato ma al nostro gruppo ha dato un sostegno enorme negli ultimi anni, aiutandoci a creare un modello di lavoro che prende l’esperienza che lui ha raccolto in carriera”.

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Il mondo della medicina è abitato da primedonne, mettere insieme persone e idee diverse non deve essere stato facile. “Nel nostro ambiente esistono personalità estremamente forti – conferma Marras – Fino a vent’anni fa si entrava in sala operatoria e poi si vedeva: iniziava la battaglia, costi quel che costi si doveva salvare il paziente”. Adesso non è più così: tutto è studiato, previsto, simulato nei minimi dettagli. “Il gruppo ha tratto beneficio da una visione a lungo termine: c’è stata la possibilità per tutti di capire, in tempi diversi, perché questo percorso aveva un senso. Non c’è stata una visione totalitaria, rigida, nell’azione. Ognuno ha tenuto conto delle osservazioni degli altri. Un approccio condiviso rende tutto più faticoso, ma migliore”. Usa la metafora facile ma efficace dell’orchestra, “molti strumenti, un gruppo eterogeneo con diverse sensibilità: tutti dovevano ascoltarsi tra loro”. E’ successo. Essere uniti per separare. Guardare dalla stessa parte per unire due sguardi che non si potevano incrociare. “Quando funziona nasce un’alchimia per cui tutto è possibile: c’è un clima culturale e tu lo devi interpretare”. E cosa c’entra la cultura, dato che si parla di medicina? Marras prende lunghe pause parlando, pesa le parole, muove poco le mani: “Il medico è un uomo, è immerso in un certo clima culturale. Ciascuno di noi ha interessi, passioni, una vita: c’è chi ama la musica, la lettura, lo sport, l’impegno sociale. Questo genera nelle persone curiosità e apertura: da qui ad esempio la capacità di ascoltare in silenzio, di permettere all’altro di dire quello che pensa”. Non solo, c’è anche un percorso personale e professionale di ciascuno. “Non dimentichiamo che questo è un ospedale che cura i bambini: siamo in un contesto in cui ci stiamo prendendo cura di ciò che è più prezioso al mondo, soprattutto per i genitori. In questi momenti i genitori hanno una sensibilità e una percezione di ciò che sta avvenendo così naturali che tu non puoi confrontarti con quello che hai da fare se non con lo stesso loro atteggiamento: non puoi che essere sincero, legato e in sintonia. Facciamo un lavoro in cui oltre a curare dobbiamo comunicare in modo coerente e vero. Se uno impara a farlo tutti i giorni non può che arricchirsi culturalmente”. E’ una cultura del sentire l’altro che non può che portarti a essere sincero e vero, dice. “Questo è paradossalmente un punto di estrema debolezza ma anche di azione: ti spinge ad andare avanti nel modo più giusto. E’ un’occasione unica per noi”.

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I tre interventi

Nel maggio 2019 Ervina e Prefina sono entrate in sala operatorie per il primo dei tre interventi che le avrebbero dovute separare: “Avevamo definito prima qualsiasi dettaglio. Sapevamo cosa avremmo incontrato, ma ancora non conoscevamo quello che avevamo immaginato di incontrare. Il sistema di simulazione ha dato le indicazioni che volevamo: ci ha detto dove si trovavano le vene e come erano collegate tra loro”. Benedetta tecnologia. “Come di tutti i sistemi innovativi, ti fidi ma non ciecamente: serve la verifica costante della sua reale utilità. In medicina oggi è fondamentale potersi fidare di strumenti che prescindono dall’atto medico. Abbiamo provato e riprovato tutto continuamente, fino a due giorni prima, fino all’esagerazione. Ne è valsa la pena”.

 

L’intervento più complicato era il secondo: “Dovevamo separare due grosse vene fuse, più un’altra: c’era il rischio di danneggiare, dovevamo calarci per 5 cm in un canale largo 10-15 millimetri. Quando abbiamo completato l’intervento e le bambine stavano bene abbiamo capito che potevamo farcela”. Siamo nel giugno del 2019, dovrà passare ancora un anno prima del terzo intervento, quello conclusivo, fatto lo scorso 5 giugno. “Abbiamo fatto studi di risonanza magnetica con il sistema Angio 4D, grazie al lavoro di tanti, compreso un architetto che ha studiato come creare i modelli 3D della scatola cranica delle bambine, eravamo sicuri che pur separando l’ultima parte non sarebbe successo nulla di grave dal punto di vista vascolare”. Parla dei colleghi che hanno lavorato con lui, Marras, ricorda come dopo la terza operazione ci fosse comunque un ulteriore problema: come coprire la parte che una volta separata sarebbe stata esposta per permettere alla pelle di crescere senza che ci fossero infezioni? “I chirurghi plastici guidati dal dottor Mario Zama sono stati fondamentali. Le bambine hanno fatto un lungo percorso, importante e impegnativo subendo vari interventi di posizionamento degli espansori cutanei”. Ecco spiegate le grandi fasciature attorno alla testa delle immagini scattate e girate dopo l’operazione: un po’ stranite ma ancora sorridenti, Ervina e Prefina hanno grandi turbanti sul capo, che la mamma si è affrettata ad abbellire con stoffe tipiche del loro paese.

 

Osservare la realtà

E’ qui che entrano in gioco due aspetti che non penseremmo mai associabili alla medicina: la fantasia e la creatività. “Nel momento in cui certe cose non sono mai state fatte devi avere intuizioni e verificarne la fattibilità”. E le intuizioni migliori arrivano dall’osservazione della realtà. “Guardavamo le bambine, disposte schiena contro schiena, unite ma diverse: due sorelle, non due cloni. Quando loro si incontreranno, ci chiedevamo, si riconosceranno? No. Grazie ai neuroriabilitatori abbiamo messo in piedi un sistema fatto di specchi che insegnasse loro a riconoscere se stesse e l’altra”. Idee che nascono dalla condivisione di ogni aspetto della vita di queste due bambine, dal dialogo con le fisioterapiste, con la mediatrice culturale che aiutava la mamma, persino con aziende e officine: “Per permettere alla pelle di formarsi senza problemi dopo la separazione abbiamo ideato un sistema posturale facendo fare un seggiolino adattato ai loro corpi che permettesse loro di cambiare posizione affinché non ci fosse un decubito. La ricerca e la cura di ogni dettaglio sono state fondamentali per raggiungere il risultato”. Un altro esempio: “Anche l’attenzione di non esporre queste creature all’esterno è stato fondamentale”. In effetti il mondo ha saputo di Ervina e Prefina soltanto settimane dopo l’ultima operazione. “Altri gruppi di lavoro che hanno trattato casi di craniopago hanno avuto difficoltà con i curiosi. L’educazione del luogo, del Bambino Gesù, ha reso tutto naturalmente discreto”.

  

Il concetto di creatività porta con sé quello di creatura. Marras conosce bene i limiti della scienza, sa che non può dare risposte a tutto (“non riuscirai mai ad avere certezze assolute, ed è bene così, se no sai che noia?”, scherza), sa che il medico non è un demiurgo. Parla di “cura” non come di una pozione magica, ma nel senso di “prendersi cura di”, a prescindere dalla guarigione. Come si fa a stare davanti al dolore innocente di un bambino che soffre? “Quando c’è una persona che non conosci ed è in difficoltà puoi fare due cose: essere indifferente o incontrarla e dire che la sostieni. Questo secondo atteggiamento ti espone anche a possibili fraintendimenti, ma nel momento in cui lo fai perché senti che è importante essergli vicino cade qualunque ostacolo. Quando noi abbiamo a che fare con i bambini, in ospedale, non possiamo generalizzare: ognuno ha problemi di salute diversi dagli altri. Non si può omogeneizzare il rapporto con i genitori. Quello che diciamo è che noi ci siamo, che facciamo di tutto per sostenere quella creatura e loro. Sono i genitori che ci raccontano il figlio, lo conosciamo attraverso i loro occhi. Quando ci prendiamo cura di un bambino e lo sottoponiamo a un intervento chirurgico, pensiamo a quel bambino, non alla malattia che ha. Questo migliora il risultato dell’intervento: curiamo lui, non la sua patologia. E mentre lo facciamo pensiamo ai genitori, che sono lì fuori terrorizzati. Ecco perché li informiamo durante l’intervento, non è che il figlio entra in una scatola nera e non se ne sa più nulla. I genitori ci dicono ‘dottore, siamo nelle sue mani’, si sentono impotenti pur volendo essere artefici del percorso del figlio. Vogliamo che sappiano che mentre eseguiamo l’intervento loro sono con noi. Ci sono atti personali, emotivi, che si uniscono a fatti pratici: riconoscere quella persona e non la malattia. Così tutto è più semplice, vero, legato. Vivendo così si invecchia prima, però si invecchia bene: siamo felici di donare questi anni, così hanno un senso”.

 

Eppure spesso tra i medici è il cinismo a vincere. “Si può essere indifferenti a queste condizioni e rinchiudersi nella propria professionalità, nel tecnicismo. Dai genitori sento spesso la frase ‘dottore, lei è dall’altra parte della barricata’, ma non esiste frase più sbagliata. Quando è così devi dare loro tempo, il rapporto che nasce tra medico e paziente renderà evidente che non c’è nessuna barricata. Non puoi convincere uno a cambiare subito punto di vista, ma puoi fargli vedere che non è così”. Da dove nasce questo sguardo? “Non lo so. Ci pensavo in questi giorni. Questo evento eccezionale ha mosso una serie di emozioni negli altri: tutte le persone che ho incontrato nella storia della mia vita erano felici di questo momento, ho ricevuto attestati d’amore da tutti. Credo sia innanzitutto la naturale conseguenza dell’avere detto di sì a una opportunità che è arrivata nella mia vita”. E’ un uomo unito, Marras. “Ho sentito la mia vita come parte integrante della vita degli altri, che hanno vissuto questo successo come un loro successo. Un sacco di persone dopo questa mia esperienza stanno meglio, cosa posso volere di più? E’ bellissimo. Io sono certo che se la nostra storia continua in nostra assenza, questo dà un senso alla nostra vita. I miei maestri sono felici perché hanno visto che hanno seminato in me qualcosa di buono. Sono contento di lavorare con gente che la pensa così: è come se si creasse una visione per sempre, una visione che sostiene l’uomo per sempre. Interpretare il tempo e la vita così permette di accettare il tempo che corre e di gioire nel tempo che corre non per il successo personale, ma per una visione che sostiene l’uomo. Il contenuto profondo della felicità che questo evento ha generato sta in questa speranza che tutto possa continuare a esistere in un modo migliore”.

 

L’importanza dei maestri

Figlio di un veterinario, 56 anni, accento sardo ancora ben riconoscibile nelle sue parole, da ragazzo Marras cresce con l’idea di avere uno spazio libero in cui potere fare qualcosa per gli altri. Dopo la laurea in Medicina parte per il Sudamerica, in una missione, per andare a cercare il senso del suo essere medico. “Se non avessi fatto il neurochirurgo avrei lavorato in giro per il mondo come dottore”, dice. Lascia la Sardegna per il nord Italia, quando è nella fredda Milano gli chiedono perché non è rimasto al sole della sua terra, lui risponde che uno si porta dietro il luogo in cui è nato. E’ fatto per incontrare le persone, impastarsi con loro, all’Istituto neurologico Besta di Milano incontra maestri che gli insegnano ad amare le persone e i bambini. Quello sguardo nasce anche lì. E poi, aggiunge, “il fatto di avere vissuto un percorso personale legato alla nascita di mia figlia, che ha avuto grosse difficoltà, mi ha avvicinato ancora di più al senso di cura”.

 

Marras è al Bambino Gesù da dieci anni, nel suo reparto ha portato innovazione, idee. Ma quando ne parla coniuga sempre alla prima persona plurale: “Per quel che riguarda la tecnologia, siamo stati innovatori. Le neurochirurgie pedriatiche italiane sono di altissimo livello”, spiega, ma se deve pensare a quale è il suo apporto particolare dice che è “accompagnare tutto con tanta curiosità e voglia di conoscere e sviluppare. E’ per questo motivo che certe tecnologie ci sono, che abbiamo intrapreso il percorso di cura delle bambine. La creazione di visione e condivisione, l’aspetto educazionale, la voglia di non tenere per noi queste conoscenze, la voglia di condividere. Non vogliamo centralizzare, essere ‘l’unico’ centro, è un’idea distorta e negativa: c’è un centro che ha risorse preziose e propone modelli di lavoro che possono essere interpretati e utilizzati altrove”. Non riusciamo a tirargli fuori trionfalismo per quello che ha fatto: “Mi ritengo molto fortunato. Sarà anche vero, come dicono, che questo successo è il frutto di anni di sacrifici, frustrazioni, prove. Ma questo evento offre la possibilità di ragionare sul senso delle cose che faccio e su come portarle avanti. Quante persone lavorano quanto lavoro io? Tante, ma io ho avuto la fortuna di essere in questo posto, in questo periodo storico e di incontrare queste bambine”. Non c’è ipocrisia nelle sue parole. “Adesso dovremo trattare un altro caso, siamo pronti. La realtà deve essere sempre interpretata e non distorta: continuiamo a essere noi stessi, ma più ricchi dopo questa esperienza. Dopo un successo del genere dobbiamo essere attenti a non distrarci e abbassare la guardia”. Il cinismo per questa volta sembra evitato. “Il cinismo è una protezione, ti fa dire: sono un chirurgo, dovevo fare questo e quello, ho fatto quello che potevo, basta. E’ un approccio che non può avere lunga vita. Non penso che se un medico è cinico lavora meglio, anzi, penso che un medico che sente il peso di quello che fa è molto più efficace perché tiene conto di tutto, anche nel rispetto della persona che sta curando”. Come si fa a tenere conto di tutto? “Servono buoni compagni di viaggio. Il medico fenomeno è cinico, è bravo, è noto, va dovunque, ma per il tempo della sua vita. Il protagonismo non serve. Si capisce che adesso parlino di me, è più semplice, ma io esisto perché esiste il mio gruppo. Quando Marras è distratto per fortuna c’è qualcuno che lo richiama”. Un gruppo è forte perché lavora insieme, ribadisce. “Anche individuare i giovani è importante. Abbiamo un’età media bassa, sotto i 40 anni. E’ un gruppo di lavoro che continuerà a esistere: questa visione che portiamo avanti, e che si modificherà col tempo naturalmente, non sarà un fulmine, un fiore notturno che al mattino appassisce”.

  

Non avere paura

E’ l’opposto del transumanesimo, il “per sempre” di cui parla Marras. “La tecnologia va interpretata – dice – abbiamo creato un modello di monitoraggio a livello fisiologico all’interno di patologie che non sono neurochirurgiche ma che possono avere risvolti neurologici. Abbiamo un patrimonio di conoscenze che può essere trasversalmente condiviso con altre unità. Abbiamo tante idee che vengono filtrate, analizzate, strutturate, per poter poi essere proposte. Adesso lavoriamo con modelli anatomici, simuliamo gli interventi, integriamo tra loro sistemi diversi: da qui la relazione con le industrie. Al di là del fatto commerciale, che rappresenta la motrice della loro attività, hanno bisogno di trovare una motivazione. O meglio, noi abbiamo il dovere di comunicare alle aziende che quel lavoro lo fanno anche per curare. Ricordarlo loro, coinvolgendoli, cambia: le persone delle aziende che ci hanno aiutato a raggiungere l’obiettivo di separare le due gemelle erano felicissime di avere contribuito al risultato. Si ritorna sempre a questo: il valore della persona, se riconosciuto, rende tutto diverso”. Così si possono affrontare anche gli inevitabili imprevisti (“il punto è risolvere il problema senza che questo determini conseguenze nel paziente. Bisogna avere fiducia nelle persone con cui lavori, non sentirsi mai solo davanti alle difficoltà”) e si può non avere paura: “No, non mi capita. Questo non significa che non sia preoccupato o non riconosca la complessità di quello che devo fare. La paura non è più un sentimento che mi accompagna. Succede quando siamo ‘piccoli’ nel nostro percorso chirurgico, quando però hai maestri che ti danno sostegno per superare anche quella condizione emotiva”. Eppure nel suo mestiere il confine tra successo e catastrofe è sottilissimo. “Un fallimento seguito da riconsiderazione affinché non si ripeta è un successo. Ognuno di noi ha responsabilità che se non rispettate portano conseguenze. Quando ti prendi cura di un paziente, e dei suoi genitori, non puoi non essere preciso e presente. Ma non puoi non pensare che il fallimento non faccia parte della tua vita”.

 

Marras non è su Twitter, ha sempre dosato le sue apparizioni tv, è l’opposto dello scienziato-fenomeno che siamo stati abituati a vedere negli ultimi mesi. Sa di essere in un mondo in cui tanti colleghi fanno le star: “Che continui a esistere un gruppo di lavoro come questo, in tempi in cui a funzionare sono i personaggi, le frasi a effetto, la comunicazione pianificata e immediata che afferma una persona, una figura, a me fa piacere”. Gli eventi come quello della separazione di Ervina e Prefina, quelli da ricordare e che restano nella storia, non li fanno soltanto i luminari o la scienza, ma anche, se non soprattutto, l’umana compagnia.

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