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Il metro che oggi ci separa è la vittoria dell’astrazione sulla realtà

Giuseppe De Filippi

L'invenzione di Tito Livio Burattini fu capita in ritardo e non ci lasciò più

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Abbiamo conquistato il metro. Inteso come distanza al bar o al ristorante in grado di mettere d’accordo tutti: i ministri, i presidenti di regione, i comitati scientifici, gli esercenti, i clienti. E’ una vittoria storica dell’astrazione sulla realtà. Perché il metro, lungo, appunto, un metro, è un’invenzione abbastanza recente nella vicenda delle approssimazioni successive dell’umanità verso la misurazione dello spazio. E casualmente quel metro, inventato e non appreso dall’esperienza contadina o dalle necessità del diritto fondiario o dall’architettura o dal sapere marinaresco, è anche, ci dicono, il limite spaziale del volo pericoloso di un grappolo di droplet umane. Casuale ma efficiente, insomma, e chissà che non ci sia sotto qualche misteriosa ricorrenza naturale, come per la serie di Fibonacci (quella che si ottiene sommando un numero intero al precedente e quindi si sviluppa come 1, 1, 2, 3, 5, 8…) nata a metà del 1300 per divertimento e per calcolare lo sviluppo prevedibile di un allevamento di conigli e poi ritrovata in tantissime proporzioni ripetute in biologia, lo sviluppo dei petali di un fiore ad esempio, e capace di approssimare la cosiddetta sezione aurea, cioè il rapporto dimensionale di riferimento per le costruzioni e per la loro bellezza. E’ una vittoria postuma del filosofo naturale italiano, per quello che poteva significare essere italiano per un agordino cosmopolita del Diciassettesimo secolo, Tito Livio Burattini.

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Abbiamo conquistato il metro. Inteso come distanza al bar o al ristorante in grado di mettere d’accordo tutti: i ministri, i presidenti di regione, i comitati scientifici, gli esercenti, i clienti. E’ una vittoria storica dell’astrazione sulla realtà. Perché il metro, lungo, appunto, un metro, è un’invenzione abbastanza recente nella vicenda delle approssimazioni successive dell’umanità verso la misurazione dello spazio. E casualmente quel metro, inventato e non appreso dall’esperienza contadina o dalle necessità del diritto fondiario o dall’architettura o dal sapere marinaresco, è anche, ci dicono, il limite spaziale del volo pericoloso di un grappolo di droplet umane. Casuale ma efficiente, insomma, e chissà che non ci sia sotto qualche misteriosa ricorrenza naturale, come per la serie di Fibonacci (quella che si ottiene sommando un numero intero al precedente e quindi si sviluppa come 1, 1, 2, 3, 5, 8…) nata a metà del 1300 per divertimento e per calcolare lo sviluppo prevedibile di un allevamento di conigli e poi ritrovata in tantissime proporzioni ripetute in biologia, lo sviluppo dei petali di un fiore ad esempio, e capace di approssimare la cosiddetta sezione aurea, cioè il rapporto dimensionale di riferimento per le costruzioni e per la loro bellezza. E’ una vittoria postuma del filosofo naturale italiano, per quello che poteva significare essere italiano per un agordino cosmopolita del Diciassettesimo secolo, Tito Livio Burattini.

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Personaggio molto interessante, fisico, matematico, studioso di geometria e di ottica (ad Agordo gliene saranno grati), fan di Galileo, misuratore entusiasta: stregato dalle Piramidi passò quattro anni, dal 1637 al 1641 non a studiarle come un archeologo ma, appunto, a misurarle. E allora perché non inventare un’unità di misura? Non più, come si diceva, roba da agricoltori o qualunque altra cosa derivabile dalla pratica quotidiana, ma attingendo all’esperienza sperimentale della fisica. E quindi, da buon galileiano, usando il pendolo e la sua caratteristica (in realtà non proprio costante, specialmente per angoli grandicelli) dell’isocronismo, cioè dei tempi identici per ogni oscillazione. Burattini fissò la lunghezza del suo metro in quella coperta dall’oscillazione di un “pendolo che batte il secondo”, cioè in due secondi. Così inoltrandosi nella tessitura dello spazio-tempo e in quella interazione gravitazionale che la ravviva (la forza misteriosa che faceva oscillare il pendolo e su cui lavorava quasi in quegli stessi anni Isaac Newton). E inventò la parola, proponendolo come “metro cattolico”, cioè universale e sollecitando la comunità degli scienziati ad adottarlo come misura standard, cui poi associò unità di peso e di volume e una razionale suddivisione per sottomultipli.

 

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Come ha ben raccontato Paolo Alessandrini nella giornata dedicata allo scienziato globetrotter ad Agordo circa due anni fa, ai suoi tempi il non troppo conosciuto Burattini non venne ascoltato. Era un po’ eclettico rispetto al dibattito scientifico dell’epoca e aveva anche i suoi impicci dopo essere stato chiamato a occuparsi della Banca centrale (mestiere sempre problematico) dell’instabile Regno di Polonia. Ma la parola metro e l’idea di misurazione razionale continuò a serpeggiare per riemergere poi nel 1791 e non lasciarci più.

 

Burattini aveva scelto bene il termine (successo mondiale duraturo) e c’era andato vicinissimo con la lunghezza, perché il suo metro cattolico arrivava esattamente a 993 millimetri. Solo a 7 millimetri di distanza dall’ultimo dpcm.

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