Il professore Silvio Garattini (foto LaPresse)

Vaccini per gli anti scienza

Annalisa Chirico

Le cure ispirate alla magia distruggono la società della competenza. Chiacchiere con lo scienziato Silvio Garattini

Milano. “Più che la morte, mi spaventa il dolore. Alla mia età, ogni giorno è un dono inaspettato. So che la fine potrebbe sopraggiungere in ogni istante, spero soltanto che tutto avvenga di colpo, senza sofferenze né malattie”. Silvio Garattini è seduto nel suo ufficio all’Istituto Mario Negri di Milano. La sua creatura, la sua casa. Il professore sorseggia un tè zuccherato, il suo unico pasto fino a cena. “Sono un assertore della restrizione calorica: mangio una volta al giorno, e preferisco alzarmi da tavola con una sensazione di fame inappagata. La dieta mediterranea è la più azzeccata: verdure, cereali, poca carne e meno alcol possibile”. Dopo cinquantacinque anni alla direzione dell’istituto, il professore, che a novembre celebrerà il novantesimo compleanno, cede il testimone a Giuseppe Remuzzi, fino a ieri direttore del Mario Negri di Bergamo. Lui, il padre nobile, andrà a ricoprire il ruolo di presidente. “Ho ricevuto numerose email di pazienti, amici e sconosciuti che mi domandano se potranno contare ancora su di me. Voglio rassicurare tutti: io non vado in pensione né mi ritiro al bar. Continuerò a venire qui di primo mattino e ad andar via a sera inoltrata. Non abbandono nulla. E' giusto però che gli affari correnti siano gestiti da altri, io desidero dedicarmi alla divulgazione del pensiero scientifico e alla definizione delle future strategie per rendere il Mario Negri ancora più grande”. La voce del professore distilla gocce di eterna giovinezza: questo signore bergamasco, dal corpo magro e flessuoso come un giunco, sciorina cifre e date, racconta aneddoti e dispensa lezioni senza il minimo tentennamento, una lucidità impressionante. “Pensava di trovarmi un po’ rimbambito? – ironizza lui – In realtà, non avverto il passare del tempo, se non in quei rari momenti in cui osservo la mia immagine riflessa nello specchio e non riconosco più il giovane che ero. All’epoca mi figuravo la fine della vita intorno ai sessant’anni, per la mia generazione un 90enne era un matusalemme. Invece riesco ancora a lavorare e a muovermi come prima, l’unico campo nel quale avverto una distanza incolmabile con i giovani riguarda l’interazione con il digitale. Uso la posta elettronica, per il resto sono abbastanza negato”. Oltre ad aver fondato, dal nulla, un istituto leader nel settore della ricerca farmacologica, Garattini è un’autorità scientifica di rango internazionale, con un curriculum che assomma ruoli di primo piano nel Consiglio superiore di sanità italiano, nell’Agenzia europea del farmaco, nell’Organizzazione per la ricerca e la cura del cancro basata a Bruxelles. Tuttavia il nome del professore, figlio di un impiegato di banca, diplomato alla scuola Esperia come perito chimico, con un apprendistato nelle acciaierie della Dalmine mentre studia per il diploma del liceo scientifico, indispensabile per la successiva laurea in medicina all’università di Torino, resta indissolubilmente legato alla storia dell’istituto milanese di via la Masa che, con oltre quattordicimila pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali, è il fiore all’occhiello della ricerca biomedica italiana.

 

“La storia del Mario Negri ha il sapore di una fiaba. Nel 1955 ottengo la libera docenza in chemioterapia e, tre anni dopo, in farmacologia. Nel frattempo decido di trascorrere qualche mese negli Stati Uniti per conoscere meglio il funzionamento della ricerca e della sanità oltreoceano. Scopro una distanza siderale rispetto al nostro paese dove la ricerca poggia essenzialmente su università e industria, e l’attività del ricercatore è limitata al tempo libero. In America il ricercatore è un professionista a tutto tondo, e spesso i finanziamenti vengono erogati dalle fondazioni, strutture che combinano insieme la libertà d’azione, tipica di ogni iniziativa privata, con il perseguimento di un interesse pubblico, scevro da scopi di lucro. Tornato in Italia, decido di dar vita a una fondazione, sulla falsariga del modello osservato all’estero. Mi servono soldi, tanti soldi. Per pura casualità, m’imbatto nel signor Mario Negri, un gioielliere di via Montenapoleone che ha accumulato una discreta ricchezza intuendo, nell’immediato dopoguerra, la necessità di passare dal gioiello artigianale, troppo costoso, a quello industriale. Negri ha diversificato gli investimenti creando una piccola industria farmaceutica. Prendo coraggio e gli chiedo a bruciapelo: mi aiuta a mettere in piedi una fondazione? Lui mi convoca a colazione al Giannino, un ristorante lussuoso, per me all’epoca inaccessibile. L’idea gli piace, mi garantisce il suo aiuto. Purtroppo nel 1960 gli viene diagnosticato un tumore, e gli eventi prendono una piega diversa. Un paio di settimane prima del decesso, il signor Negri ha la premura di telefonarmi per informarmi che non verrà meno al suo impegno. All’apertura del testamento, apprendo che cento milioni di lire, insieme a un nutrito pacchetto azionario, sono stati destinati alla creazione della futura fondazione che, secondo le disposizioni del defunto, dovrà essere guidata da me nelle vesti di direttore”.

 

Nel 1963 l’Istituto apre i battenti con una squadra di ventidue persone, oggi sono circa 750, distribuite tra la sede storica e quelle di Bergamo e Ranica. “All’inizio è stata dura. L’università premeva affinché incorporassi al suo interno l’organizzazione allo stato embrionale. Io però sono un testone, ho tirato dritto per la mia strada. Mentre l’ambiente italiano si mostrava scettico e diffidente, ci fu di enorme aiuto una fondazione inglese per la fornitura di apparecchiature moderne; inoltre, fino alla fine degli Sessanta, potemmo contare sul sostegno, anche economico, del governo statunitense che ci procurava contratti di ricerca importanti’. Nell’album di famiglia del Mario Negri spiccano le foto del professore, con indosso l’immancabile lupetto bianco (“Viaggiando molto, mi serve un abbigliamento comodo che non costringa la moglie, o chi per lei, a stirare”), accanto a una distinta signora, avvolta in una pelliccia nera e con vistosi occhialoni da vista. Lei è Anna Maria Astori, unica figlia di Mansueto e della baronessa Maria Scotti, poi convolata a nozze con Tobia Naddeo, pretore di Loreto e poi avvocato penalista a Bergamo. “Il Mario Negri deve molto alla signora Astori e alla sua generosità – commenta Garattini – E’ stata lei a finanziare la biblioteca del Centro di ricerche cliniche per le malattie rare di Villa Camozzi a Ranica; si deve pure a lei la decisione del lascito che ha permesso di realizzare una parte della nuova sede dei Laboratori presso il Parco scientifico tecnologico del Kilometro rosso. La Astori ha saputo comprendere nel profondo i valori del Mario Negri, una fondazione indipendente al servizio dei malati; il centro di Bergamo è intestato a lei”. Risale invece al 1992 la restaurazione di Villa Camozzi, nel bergamasco, divenuta sede del Centro per le malattie rare intestato ad Aldo e Cele Daccò. “Anche in questo caso, grazie alla filantropia di una straordinaria coppia milanese, abbiamo realizzato un istituto con un focus di ricerca sulle patologie renali croniche, sulle complicanze del diabete e sul trapianto d’organo. La prima volta che accennai alla signora Cele l’idea di ristrutturare la splendida villa ottocentesca per trasformare le stanze in camere di degenza, portai con me un preventivo delle spese per i lavori, circa dodici miliardi di lire. Lei non esitò un istante: ce li metto io, va fatto”.

 

In tutti questi anni, i corridoi del Mario Negri sono stati attraversati da oltre 7mila ricercatori, l’istituto ha consolidato la propria reputazione internazionale grazie ad un’attività di ricerca di prim’ordine.  Tra queste mura è stata certificata, per esempio, la terapia trombolitica per la cura dell’infarto acuto che ha salvato milioni di vite nel mondo. Ma Garattini è stato molto di più: demolitore di totem incontestabili, picconatore del luogo comune, paladino indefesso delle ragioni della scienza contro l’oscurantismo di stregoni e fattucchiere. ‘In Italia è vietato scambiare Dante per Petrarca, ma se uno confonde atomi e molecole farglielo notare è eccesso di pignoleria. Provate a sfogliare le pagine culturali di un grande quotidiano come il Corriere della sera: è pressoché impossibile trovare articoli dedicati alla scienza. La cultura scientifica è del tutto assente, prevale quella umanistica. Così lo scetticismo sui vaccini prende piede nell’indifferenza generalizzata. Nessuno ricorda che lo stato italiano ha finanziato sia il metodo Di Bella che Stamina, pseudocure ispirate alla magia. E che dire della fascinazione collettiva per l’omeopatia e la medicina alternativa? I vaccini, insieme agli antibiotici, hanno rivoluzionato il metodo delle cure: sono i farmaci più efficaci in termini di prevenzione, hanno costi accessibili e sono attivi nella maggior parte degli individui. Io ho conosciuto l’Italia della poliomelite: un bambino su due ne moriva o rimaneva gravemente disabile. Solo i giovani genitori privi di memoria storica possono coltivare una qualche forma di scetticismo sulla necessità inderogabile di vaccinare i propri figli. Se la copertura vaccinale diminuisce, i virus ricompaiono. Quanto agli antibiotici, essi hanno ridotto a zero la mortalità per malattie infettive. Certo, vanno usati correttamente: l’impiego sconsiderato nel caso di malattie virali o sugli animali da allevamento rischia di sviluppare la resistenza dei batteri. Tuttavia, queste elementari nozioni sono ignote ai più, spesso si assume un antibiotico al primo sintomo d’influenza. Nella lotta all’analfabetismo scientifico lo stato è latitante: alla ricerca, per esempio, sono riservate le briciole del bilancio pubblico. A fine 2017 il Mario Negri, che quattro anni fa ha ottenuto dal ministero della Salute il riconoscimento di Irccs (istituto di ricovero e cura a carattere scientifico, ndr), ha ricevuto 60mila euro; una somma che, per una struttura che impiega 750 persone, equivale ad una miseria. Eppure lo stato italiano è lo stesso che ha finanziato il cosiddetto metodo anticancro di Luigi di Bella…”. In effetti, nel 1999 il ministero della Salute condusse una sperimentazione ad hoc prima di sancirne la sostanziale ‘inattività’, vale a dire l'inefficacia terapeutica. ‘Mi fu chiesto di entrare a far parte del comitato etico che avrebbe dovuto valutare lo pseudotrattamento applicabile per tutti i tumori, indistintamente. Mi rifiutai, si trattava evidentemente di una ciarlataneria, all’estero i colleghi ci osservavano increduli. Né si può dire che impariamo dai nostri errori: il copione si è ripetuto identico con Stamina. Il problema è che da noi la scienza è associata al progresso di computer e farmaci ma non è considerata una fonte di conoscenza. Nell’Europa a ventotto si contano, in media, cinque ricercatori ogni mille occupati; il dato italiano è fermo a 2,7. Se i politici rifiutano l’idea che la ricerca è un investimento, non una spesa, il paese non ha futuro. Formiamo competenze straordinarie che si fanno valere in giro per il mondo e che resterebbero volentieri nel nostro paese. Ma abbiamo imboccato la via del declino, nelle classifiche internazionali sull’innovazione perdiamo posizioni e siamo l’unico paese europeo privo di un’interfaccia permanente tra il mondo della politica e quello della ricerca. Altrove esistono strutture e advisor tecnici che forniscono pareri sulle materie scientifiche, da noi ci si affida all’improvvisazione e alla sensibilità dei singoli”.

 

Una volta lei ha dichiarato che è più facile sperimentare un farmaco su un essere umano che su un animale. “E’ la verità. Nel caso di un esperimento sull’uomo, basta ottenere l’autorizzazione di un comitato etico. Per un topolino, invece, devo ottenere, insieme al parere già menzionato, il via libera dell’Istituto superiore di sanità e del ministero della Salute. Se va bene, s’impiegano sei o sette mesi. Con queste lungaggini, essere competitivi è impossibile. Quando arriva l’autorizzazione finale, qualcun altro ti ha bruciato sul tempo oppure il contratto di ricerca è stato già revocato. Gli animali vanno tutelati ma non si può bloccare la ricerca biomedica. L’Italia è tuttora sotto procedura d’infrazione in sede europea perché si è dotata di regole e vincoli più stringenti della direttiva comunitaria. La legge italiana del 2014 proibisce, per esempio, gli xenotrapianti (trapianto di tessuti e organi da un individuo di una specie diversa da quella del soggetto destinatario, ndr), assai utili per lo studio dei sistemi immunitari, e vieta la sperimentazione di droghe sugli animali. La sperimentazione animale è assolutamente necessaria: qualunque cellula riproducibile in vitro non è mai comparabile al più minuscolo organismo vivente”. Prima di congedarci, il professore ci mostra le foto dei cinque figli, avuti dalla prima moglie, un’unione durata quarant’anni prima del tragico epilogo datato 1992: la signora fu travolta da un’automobile mentre camminava in strada a Milano, inutili i tentativi di soccorso. “L’esistenza mi ha dispensato gioie e dolori – Garattini si concede una pausa, l’unica di questo nostro colloquio – A distanza di qualche anno, ho incontrato una nuova compagna francese, Anny, e l’ho sposata. Se calcolassi il tempo trascorso tra le quattro mura del Mario Negri, scoprirei che la mia vita l’ho vissuta qui, tra ricercatori e pazienti, piuttosto che con la mia famiglia. Ai figli ho dedicato gli scampoli di tempo tra un convegno e l’altro, sforzandomi di trasmettere l’etica del lavoro e del sacrificio. L’intensità conta più della quantità, ne resto convinto. Quando qualcuno m’interroga sui miei hobby, rispondo che non ne ho, sul mio comodino non c’è neanche un libro perché mi manca il tempo per leggere. Dormo poche ore, se non dormo lavoro: mi ritengo una persona fortunata”.

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