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Giornata mondiale contro l’AIDS 2020

Covid ha travolto l'assistenza, la diagnosi e la prevenzione dell'Hiv

Enrico Cicchetti

L'epidemiologo della Statale: "La ricerca ha fatto passi enormi". Ma la Lega italiana per la lotta contro l'Aids denuncia: “La pandemia rischia di farci arretrare. E gran parte del problema è ancora culturale”

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Nel mondo quasi 38 milioni di persone convivono con l'Hiv, con quasi 2 milioni di nuove diagnosi ogni anno. L'infezione, avverte la Società italiana di malattie infettive e tropicali, continua a rappresentare “una questione di salute pubblica a livello globale”. Questo primo dicembre la giornata mondiale di lotta all’Aids sarà oscurata dalla pandemia di Covid. Ma il virus dell'Hiv non è scomparso, così come la necessità di parlarne, di fare informazione e prevenzione. “Tra aprile e maggio, in coincidenza dei lockdown parziali o totali, le cure pediatriche contro l'Hiv e i test della carica virale per i bambini in alcuni paesi sono diminuiti tra il 50 e il 70 per cento e gli inizi di nuove cure sono diminuiti del 25-50 per cento”, secondo quanto emerge dall'ultimo rapporto dell'Unicef.

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Nel mondo quasi 38 milioni di persone convivono con l'Hiv, con quasi 2 milioni di nuove diagnosi ogni anno. L'infezione, avverte la Società italiana di malattie infettive e tropicali, continua a rappresentare “una questione di salute pubblica a livello globale”. Questo primo dicembre la giornata mondiale di lotta all’Aids sarà oscurata dalla pandemia di Covid. Ma il virus dell'Hiv non è scomparso, così come la necessità di parlarne, di fare informazione e prevenzione. “Tra aprile e maggio, in coincidenza dei lockdown parziali o totali, le cure pediatriche contro l'Hiv e i test della carica virale per i bambini in alcuni paesi sono diminuiti tra il 50 e il 70 per cento e gli inizi di nuove cure sono diminuiti del 25-50 per cento”, secondo quanto emerge dall'ultimo rapporto dell'Unicef.

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In generale dall'indagine si evince che la crisi Covid ha ampliato le disuguaglianze di accesso ai servizi salvavita contro l'Hiv per i bambini, gli adolescenti e le donne in gravidanza, ovunque nel mondo. “La pandemia da nuovo coronavirus ha monopolizzato la nostra attenzione. Tanto più che ancora oggi, in Italia, parlare di Hiv e affrontarlo in modo pragmatico è difficile”, dice al Foglio Massimo Oldrini, il presidente nazionale della Lila, la Lega italiana per la lotta contro l'Aids. “A causa della pandemia, gran parte delle persone con patologie croniche ha subito grandi limitazioni nell’accesso e nella continuità delle cure e tra queste, in modo particolare, le persone con Hiv. I tradizionali ambiti sanitari di riferimento, i reparti e ambulatori di malattie infettive, sono stati quelli più investiti dalla bufera Covid mentre gli infettivologi sono stati risucchiati dall’emergenza. Questo ha prodotto, in troppi casi, l’interruzione del rapporto medico-paziente, l’impossibilità di essere ricoverati nei reparti di riferimento, una distribuzione difficoltosa dei farmaci antiretrovirali salva-vita, lo slittamento di visite e controlli, mentre la gestione delle comorbidità è, per tante persone, completamente saltata”, dice Oldrini, che cita come esempio un caso recentissimo: “Un paziente pugliese ci ha segnalato che non è stato possibile il suo ricovero per complicanze legate all'Hiv in un reparto di malattie infettive perché i posti letto sono tutti occupati. Temiamo che la quantità di persone con Hiv in trattamento e con viremia non rilevabile, possa diminuire drasticamente: sarebbe un passo indietro drammatico rispetto ai successi raggiunti negli ultimi anni”.

   

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C'è poi il problema del testing e della prevenzione. “I servizi per la diagnosi precoce, così come quelli per l’erogazione della PrEP, la profilassi pre-esposizione, hanno subito forti limitazioni mentre sono saltati i programmi di informazione tra i più giovani, per la verità, quasi esclusivamente appannaggio delle associazioni”. Secondo Oldrini, a pesare è anche un fattore culturale: “In Italia i servizi non sono fatti per andare incontro alle persone. Basti pensare che per fare un test serve il certificato medico, cosa che può significare dire al proprio medico di famiglia di avere avuto un rapporto fuori dalla coppia. Per qualcuno anche solo questo può essere un limite all'accesso alla dignosi. Se la ricerca scientifica ha fatto passi inimmaginabili, sul fronte dello stigma non c'è stato grande avanzamento. Per una persona sieropositiva è difficile accedere a un mutuo, per i lavoratori autonomi non vengono stipulate assicurazioni anti-infortunio, ci sono numerosi casi di discriminazione e ingiusto trattamento sul lavoro. Il contesto sociale nel nostro paese è ancora fossilizzato a un immaginario da anni Ottanta, mentre oggi una persona in trattamento non è un 'pericolo pubblico'. Basterebbe guardare i grandi passi avanti fatti da altri paesi europei come Francia e Spagna: inserire l'educazione all'affettività e alla sessualità nelle scuole, per far sì che si possa parlare ai giovani di sesso e prevenzione, un passo propedeutico gli interventi mirati sull'Hiv. E ancora, imitare gli altri stati nel loro approccio pragmatico e non ideologico. In Italia parlare di riduzione del danno, di stanze del buco per chi fa uso di eroina, è tuttora tabù”.

 

“Negli anni Ottanta si temeva che l'Hiv si sarebbe diffuso senza controllo, mettendo a serio repentaglio sia la popolazione sia i sistemi sanitari, anche per via dei costi sanitari che comportava”, dice al Foglio il professore Carlo La Vecchia, ordinario di Statistica medica ed Epidemiologia alla Statale di Milano. “Oggi invece una persona positiva ha accesso a terapie con effetti collaterali molto più lievi rispetto al passato, ha a disposizione trattamenti di facile somministrazione e la sua aspettativa di vita può essere paragonata a quella di una persona non affetta da Hiv. Purtroppo il virus dell'Hiv si modifica molto rapidamente, a differenza per esempio dei coronavirus, che tendenzialmente sono stabili”. È questa la ragione principale per cui per l'Hiv non è ancora stato trovato un vaccino efficace, nonostante le enormi risorse stanziate nella ricerca, mentre contro Sars-Cov-2 abbiamo già diversi candidati promettenti. “Il problema è stato in buona parte bypassato, o per lo meno gestito, con i farmaci”, dice l'epidemiologo. “Inoltre i grandi investimenti gestiti dall'Oms hanno permesso di diffondere i farmaci anche nelle zone meno sviluppate, in Africa in particolare. Questo apre una prospettiva incoraggiante: oggi, poiché un soggetto trattato ha una carica virale molto bassa e dal momento che c'è la possibilità di assumere antivirali prima o dopo un rapporto a rischio, è possibile stimare che – anche senza un vaccino – nel giro di alcuni decenni, in maniera indicativa 20 o 30 anni, il virus potrà essere decisamente marginalizzato, se non eliminato”.

 

Eppure, ricorda la Lega per la lotta contro l'Aids, si sperava di ragionare su tempi più brevi: sull’Agenda Onu 2030, sottoscritta anche dall’Italia, rischiamo un grave arretramento. L’obiettivo della sconfitta dell’Aids entro i prossimi dieci anni rischia di non essere raggiunto senza un radicale cambio di direzione. “I primi segnali sono soprattutto di un crollo del ricorso al test – dice ancora Oldrini – il che potrebbe portare ad un’esplosione delle diagnosi tardive, già superiori in Italia al 50 per cento delle diagnosi annuali. Un altro forte timore riguarda la possibilità che molte persone, soprattutto le più fragili, possano aver interrotto le terapie con rischi evidenti per la loro salute e per la prevenzione generale. Il pericolo concreto è quello di creare un’invisibile ma vasta area di vittime collaterali del Covid”.

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