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il foglio del weekend

Viaggio nel sistema sanitario che non funziona più

Stefano Cingolani

Paradisi perduti. In tutto il mondo gli ospedali trasformati in aziende non hanno retto alla prova del virus

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Il 3 dicembre 1967 in un incidente a Città del Capo perde la vita Myrtle Ann Darvall, mentre la figlia Denise, 25 anni, viene ridotta in stato di morte cerebrale e ricoverata all’ospedale Groote Schuur dove giace Louis Washkansky, 55 anni, colpito da un inguaribile male cardiaco. Al Groote Schuur opera Christian Barnard, brillante chirurgo quarantacinquenne specializzato in trapianti di organi, che vede in quella catena di sfortunati eventi l’occasione per la sua impresa più audace alla quale si preparava da tempo. Ottenuto il consenso dal padre di Denise, entra in sala operatoria e ne esce dopo nove ore annunciando che il cuore della giovane donna batte regolarmente nel petto di Washkansky. L’intervento riesce perfettamente, ma arriva la polmonite bilaterale e nella notte del 21 dicembre il paziente muore.

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Il 3 dicembre 1967 in un incidente a Città del Capo perde la vita Myrtle Ann Darvall, mentre la figlia Denise, 25 anni, viene ridotta in stato di morte cerebrale e ricoverata all’ospedale Groote Schuur dove giace Louis Washkansky, 55 anni, colpito da un inguaribile male cardiaco. Al Groote Schuur opera Christian Barnard, brillante chirurgo quarantacinquenne specializzato in trapianti di organi, che vede in quella catena di sfortunati eventi l’occasione per la sua impresa più audace alla quale si preparava da tempo. Ottenuto il consenso dal padre di Denise, entra in sala operatoria e ne esce dopo nove ore annunciando che il cuore della giovane donna batte regolarmente nel petto di Washkansky. L’intervento riesce perfettamente, ma arriva la polmonite bilaterale e nella notte del 21 dicembre il paziente muore.

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La speranza dura solo 18 giorni, bastano però per trasformare Barnard in un eroe e in un divo. Il chirurgo insiste: il 2 gennaio 1968 il muscolo cardiaco di Clive Haupt viene donato al dentista Philip Blaiberg che sopravvive appena 19 mesi. Tuttavia, per aver innestato il cuore di un nero nel torace di un bianco, Barnard riceve dall’Unione degli Stati africani il premio “Uomo dell’anno”. Da Città del Capo passiamo a Houston, Texas. Il 4 aprile 1969 il dottor Denton Cooley impianta il primo cuore artificiale concepito per resistere finché non sia stato trovato il donatore di un organo naturale. L’uomo, di 47 anni, resta in vita altre 92 ore. Cooley finisce sotto accusa, viene espulso dalla Baylor University (dove lavora anche un altro pioniere, Michael DeBakey al quale faranno ricorso dal Duca di Windsor a Boris Eltsin senza dimenticare Massimo Troisi), però la sua stella risplende comunque tanto che nel 1984 Ronald Reagan lo premia con la medaglia della libertà.

 

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Nel frattempo arriva la ciclosporina per risolvere il problema del rigetto e chi può vola a Città del Capo, a Houston, a Zurigo, a Lione, a Londra. Banchieri e sceicchi, principesse e teste coronate, la crème de la crème. Chi non può, si svena per un dolente viaggio della speranza. Nel fatidico biennio sessantottino, dunque, anche la sanità entra in una nuova era: si fa mediatica, galattica, il luminare di un tempo un po’ scienziato un po’ mago diventa una star. Da allora trionfano i punti di eccellenza, negli Stati Uniti, in Svizzera, in Inghilterra, in Francia. L’Italia, segnata dalle sue inefficienze strutturali, arriva vent’anni dopo. I grandi ospedali (e non solo quelli privati) si trasformano in fucine dell’eternità, in templi della diuturna lotta contro la morte. Il palcoscenico è il mondo intero, arrivano immancabili le classifiche ed è un piacere farsi porre in lista.

 

La pagella più diffusa, stilata da Newsweek, nel 2019 vede in testa tre ospedali statunitensi: la Mayo Clinic di Rochester nel Maryland, seguita dalla Cleveland Clinic in Ohio e dal Massachusetts General Clinic di Boston. Seguono il Toronto General (University Health Network) in Canada, il Charité – Universitätsmedizin Berlin in Germania, il Johns Hopkins Hospital a Baltimora, l’Universitätsspital Zürich in Svizzera, il Singapore General Hospital (SGH), lo Sheba Medical Center in Israele, il Karolinska Universitetssjukhuset in Svezia. Il primo tra gli italiani, al 47° posto, è il Grande Ospedale Metropolitano Niguarda a Milano. Ha ancora senso oggi questo elenco? E sarà possibile comporre l’anno prossimo una tavola delle eccellenze?

 

Concorrenza, emulazione, confronto in tempo reale, dall’Europa all’Oceania; tutto ciò ha generato grandi miglioramenti, soprattutto nella cura di malattie croniche, eppure l’infarto e il cancro non sono affatto vinti, anzi continuano nella loro macabra gara per chi ha la falce più affilata. Non è bastato concentrarsi là dove i risultati sono più evidenti nemmeno per battere il virus dell’immunodeficienza umana (Hiv). Nessuno può dire che non siano stati investiti miliardi su miliardi di dollari, tuttavia non è stato trovato nessun vaccino e l’Aids è passato nella sfera dei mali cronici, curato con un cocktail di farmaci. L’epidemia di Sars è stata circoscritta rapidamente in parte perché era così mortale da rendere più facile individuarla. Ma non appena è scomparsa dalla pubblica attenzione è svanito ogni senso di urgenza e adesso si ripresenta sotto un’altra forma.

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Nel 2009, quando l’influenza suina proveniente dagli allevamenti di maiali in Messico apparve negli Stati Uniti, gli esperti avvertirono che c’era bisogno di un piano a lungo termine, con una politica pro-attiva e non solo reattiva. Ancora una volta, tutto è caduto nel silenzio. Nel 2014, per combattere l’Ebola nell’Africa centro-occidentale, il presidente americano Barack Obama creò un agenzia ad hoc e varò un fondo speciale d’emergenza. Nel 2018 l’ufficio è stato chiuso e i finanziamenti annullati anche se era emerso un nuovo focolaio in Congo. Spenti i riflettori, si spengono anche le speranze. Finché la grande pandemia non chiude il ciclo cominciato mezzo secolo fa. Per aprire una nuova fase ci vorrà tempo, immaginazione teorica e tanto coraggio nella prassi quotidiana. Il virus sconosciuto ha devastato l’ospedale-fabbrica e ha fatto saltare i sistemi sanitari quasi ovunque nel mondo.

 

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Se e quando finirà il Covid-19, se e quando riusciremo a tenere sotto controllo o magari a debellare il Sars-CoV-2, bisognerà ricostruire e riformare in larga parte l’intera filiera della salute. Ciò vale per i paesi ricchi come per quelli poveri, per i giovani, sempre meno, e per i vecchi, sempre più numerosi, accomunati, sia pure in proporzioni diverse, da un flagello che non risparmia nessuno: non ci sono spiagge immacolate, isole di Utopia, paradisi sicuri. Nemmeno in Svizzera, dove i cummenda un tempo andavano a curarsi spendendo una fortuna. Colpisce senza dubbio l’immaginazione il grido d’allarme arrivato dalle autorità elvetiche, nonostante il tasso di letalità sia ancora all’1.42 per cento. Ha fatto il giro del mondo, rilanciato dal New York Times, un comunicato della Società svizzera di Medicina intensiva secondo cui i posti letto nei reparti specializzati sarebbero esauriti.

 

Da Ginevra, una delle aree più colpite, i malati vengono trasportati a Berna, Zurigo e San Gallo. Se non cala decisamente il numero di chi ha bisogno di terapia intensiva, non è chiaro quanta autonomia abbiano ancora i rinomati ospedali svizzeri. La Svezia, paradiso dello stato sociale, ha messo a segno un triste record: secondo uno studio pubblicato il 12 ottobre dal Journal of the American Medical Association, insieme agli Stati Uniti è l’unico paese con alti tassi di mortalità, incapace di ridurre le vittime a mano a mano che la pandemia è progredita. La seconda ondata è arrivata improvvisa e possente alla fine di settembre, quando i casi sono quadruplicati a Stoccolma, l’area urbana più popolosa dove i morti sono arrivati al 3,9 per cento dei contagiati, una percentuale simile a quella del Piemonte.

 

Il “gregge” non è immune, intanto si stabilisce una luttuosa scala tra i pazienti che possono ricevere le cure a casa, oppure quelli ai quali viene negato l’ossigeno secondo una “scala di fragilità clinica”, con la priorità assegnata ai malati in base alla loro “età biologica non cronologica”. Ciò perché gli ospedali non sono in grado di dare risposta a tutti, mentre anche in Svezia si allungano le lista d’attesa per le persone colpite da mali pur gravissimi che non hanno nulla a che fare con il coronavirus. Nessun modello ha superato la terribile prova, né quelli statalisti decentrati come in Svezia, Spagna, Italia né quelli centralizzati come in Francia o misti come nel Regno Unito. Cosa è successo? La spiegazione più diffusa è che gli ospedali trasformati in aziende in nome dell’efficienza e del “dio denaro” hanno ridotto i posti letto.

 

Dunque, è colpa dei tagli e non solo: quasi ovunque si è puntato sui centri di eccellenza trascurando tutto il resto. I dati sembrano dar ragione a questa lettura della crisi. La Germania, che se l’è cavata meglio degli altri, ha otto posti letto ogni mille abitanti. L’Italia ne conta oggi 3,1 (nel 2013 erano 3,5), la Francia 5,9 (da 6,4), la Spagna 3 (da 3,2), la Gran Bretagna appena 2,5 invece che 3. L’unico tra i paesi sviluppati con valori più alti di quelli tedeschi è il Giappone, dove i posti letto sono addirittura 13 ogni mille abitanti. Dall’inizio della pandemia la Germania ha registrato 995 mila casi e 15 mila morti. In Italia con un milione e 480 mila contagiati i morti hanno superato i 52 mila. In Gran Bretagna i colpiti dal virus sono stati sinora un milione e 580 mila, i decessi oltre 56 mila. In Giappone con poco più di 90 casi e 1.983 morti (su 126 milioni di abitanti), le strutture hanno retto, anche se ora c’è il rischio di una terza ondata.

 

Il tasso di letalità è legato a molti fattori (età, condizioni di salute, misure di contenimento, e via dicendo), tuttavia i paesi con la più alta disponibilità di spazi hanno avuto meno decessi. Se è così non vanno messi alla gogna gli ospedali in sé, va discussa la loro gestione. Un clamoroso fallimento accomuna l’America, dove prevale il mercato, all’Europa con la sua sanità pubblica e la copertura universale, ma dagli Stati Uniti emerge un buco ancor più inquietante. I posti letto sono ovunque insufficienti, prima ancora, però, mancano le informazioni in base alle quali si debbono adeguare gli spazi e le strutture. Il Wall Street Journal ha aperto il vaso di Pandora in un ampio articolo costruito raccogliendo notizie sul campo, con i metodi più tradizionali, con il telefono, con le interviste ed email.

 

“Gli ospedali e le agenzie locali, statali o federali si basano su una gamma di misurazioni in tempo reale per rispondere rapidamente alle emergenze”, scrive il quotidiano, “c’è bisogno di sapere subito quanti letti sono disponibili, se gli ospedali hanno bisogno di più personale, di ventilatori o di altre apparecchiature. In questo modo i pazienti possono essere trasferiti velocemente e i medicinali distribuiti tra chi ne ha bisogno. Quando è cominciata la pandemia non esisteva niente di tutto ciò. Gli Stati Uniti hanno provato durante gli ultimi 15 anni a costruire un sistema per condividere queste informazioni in tempi di crisi; e hanno fallito”. Un giudizio che si può estendere facilmente a quasi tutti gli altri paesi.

 

“L’accesso limitato e inconsistente ai dati”, prosegue il Wall Street Journal, “è stato il maggior ostacolo nel provvedere le cure ospedaliere necessarie”. Ma come, i dati non sono il petrolio del nuovo secolo? Eppure le informazioni sensibili, cruciali per affrontare la pandemia non si trovano. Affoghiamo nei dati sulle preferenze mercantili o sessuali dei consumatori di social media e non sappiamo nulla sui posti letto negli ospedali. Evidentemente, la rivoluzione digitale non è ancora entrata nella sanità. E non solo. Come sempre quando scarseggia una risorsa, qualunque essa sia, chi la possiede non la vuol condividere.

 

Insiste il quotidiano di Wall Street: “Settimane dopo l’esplodere del contagi, le autorità hanno provato a trovare una soluzione, ma sono state travolte da errori e rallentate dalla competizione tra le istituzioni che cercavano di venirne a capo”. Suona famigliare? Al paradosso dei dati s’aggiungono burocrazie inefficienti, poteri pubblici impreparati, gelosie e conflitti intestini, lacere bandiere autonomiste che vanno a danno di tutti. Proprio come in Italia, dove assistiamo anche al collasso della rugginosa macchina delle Asl che trascina nella polvere quei medici di base che si sono tolti i camici per indossare le mezze maniche e adesso non sono più in grado nemmeno di vaccinare i loro pazienti.

 

Tanto vale ricominciare da capo con il dottore di famiglia pagato a prestazione e successivo rimborso, oppure mobilitando le compagnie di assicurazione attraverso accordi pubblico-privato. Tutto sarebbe meglio della scandalosa ritirata alla quale assistiamo in queste settimane terribili. Il sistema sanitario non è un sistema, è una galassia senza un centro di gravità permanente. Non esiste una struttura piramidale che dal vertice scenda alla base, ma nemmeno una rete orizzontale che colleghi tutti i punti nevralgici, non c’è connessione tra grandi ospedali e presidi territoriali anche là dove essi esistono ancora, la fertile concorrenza si è trasformata in un labirinto con mille barriere, mentre le autorità locali a cui fanno capo le strutture ospedaliere sono in conflitto con quelle centrali.

 

All’emergenza non sfugge nemmeno la Germania, tuttavia il modello tedesco finora ha retto meglio ed è riuscito a ricomporre quasi sempre con grande pragmatismo i contrasti tra governo federale e i 16 Länder. Ha contribuito in modo determinante alla sua resistenza la cultura della Mitbestimmung, la compartecipazione, la condivisione delle scelte. Questa è la vera prova del nove, più che lo sterile dibattito su confinamento globale o parziale, rigido o flessibile. Raggiungere l’immunità di gregge (ammesso che abbia senso definire gregge una moltitudine di soggetti ciascuno con una propria storia, anche sanitaria) è davvero arduo con un virus che colpisce in modo tanto articolato, individuo per individuo prima ancora che per fasce di età. Ciò implica un sistema di informazioni capillari e personalizzate che non s’addice a una sanità concepita come produzione di massa in base a protocolli predeterminati.

 

Per il Covid-19 non ci sono misure standard, nemmeno per gli interventi palliativi (meglio l’aspirina o la tachipirina? Anche su questo ci si accapiglia). Le terapie sono diverse spesso da ospedale a ospedale, i vaccini finora sperimentati seguono paradigmi differenti. Il ripensamento, dunque, dovrà essere molto vasto e profondo, è fondamentale una rete estesa e integrata capace di raccogliere e processare una enorme massa di informazioni da scambiare ad ampio spettro; un vero sistema che, seppur gestito in periferia, non può essere delegato a istanze separate operanti come monadi senza porte né finestre. Nessuno scagli la prima pietra, la pandemia ha travolto tutto e tutti, ma non possiamo prendercela soltanto con la natura feroce e matrigna.

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