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Il virus della marmotta

Carlo Alberto Carnevale Maffé

Il tracciamento. Immuni. Il Leviatano. Il paternalismo e l’incompetenza da combattere per esser pronti alle nuove ondate. Che significa imparare dai propri errori, dati alla mano

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Alla seconda ondata, ci risvegliamo nello stesso punto. Il virus della marmotta non ha insegnato molto alle istituzioni locali, che evidenziano una coazione a ripetere le proprie inadeguatezze. I cittadini invece hanno imparato qualcosa: la frustrazione e il disincanto, il cinismo e l’opportunismo. Vediamo, dal punto di vista organizzativo, che cosa non sta funzionando e come invece dovrebbe essere realizzata una risposta coordinata e collettiva alla pandemia in una moderna nazione europea. L’Italia, al contrario della narrazione ufficiale, è un benchmark negativo per la combinazione devastante tra incidenza delle vittime e recessione dell’economia. Nell’analisi del Financial Times (vedi tabella qui sotto), siamo collocati nel cluster di paesi come Messico, Colombia e Argentina, appena meno peggio di Spagna e UK. La prima cosa che è andata in crisi è il modello regionale dell’organizzazione della salute. Pensato per fornire cure destinate a pazienti individuali, come il diabete o le patologie cardiovascolari, si è rivelato drammaticamente inadatto ad affrontare una “malattia sociale” come una pandemia virale a trasmissione aerea.

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Alla seconda ondata, ci risvegliamo nello stesso punto. Il virus della marmotta non ha insegnato molto alle istituzioni locali, che evidenziano una coazione a ripetere le proprie inadeguatezze. I cittadini invece hanno imparato qualcosa: la frustrazione e il disincanto, il cinismo e l’opportunismo. Vediamo, dal punto di vista organizzativo, che cosa non sta funzionando e come invece dovrebbe essere realizzata una risposta coordinata e collettiva alla pandemia in una moderna nazione europea. L’Italia, al contrario della narrazione ufficiale, è un benchmark negativo per la combinazione devastante tra incidenza delle vittime e recessione dell’economia. Nell’analisi del Financial Times (vedi tabella qui sotto), siamo collocati nel cluster di paesi come Messico, Colombia e Argentina, appena meno peggio di Spagna e UK. La prima cosa che è andata in crisi è il modello regionale dell’organizzazione della salute. Pensato per fornire cure destinate a pazienti individuali, come il diabete o le patologie cardiovascolari, si è rivelato drammaticamente inadatto ad affrontare una “malattia sociale” come una pandemia virale a trasmissione aerea.

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E’ emersa la radicale incongruenza tra i processi “centrati sul paziente”, certamente utili per migliorare l’assistenza ai singoli, e quelli “orientati alla comunità”, indispensabili per combattere la diffusione di un virus tuttora privo di cure e di vaccini. Il modello corretto tuttavia non è la centralizzazione a livello statale, bensì il coordinamento a livello almeno europeo dei processi di standardizzazione dei protocolli logistici e medici, accoppiato al massimo decentramento territoriale degli interventi di prevenzione e cura. Aspettare di combattere il virus nelle trincee dei pur modernissimi ospedali lombardi si è rivelato un errore grave. Ma per abilitare l’azione dei medici di medicina generale, dei laboratori e delle strutture sul territorio serve un ferreo coordinamento tecnologico, informativo e logistico, che non ha senso lasciare a 21 strutture regionali e provinciali diverse. Il Governo avrebbe dovuto avocare a sé il potere di coordinare tali processi, e spingere perché tale leva venisse immediatamente conferita, anche da parte di tutti gli altri Paesi membri, a livello europeo.

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Per capire la differenza tra i due approcci, basti comparare lo sforzo finanziario e scientifico messo in campo in Europa per la pianificazione del (possibile) vaccino anti-COVID19 con la disastrosa gestione dell’ordinario vaccino antinfluenzale stagionale in Lombardia. Il modello sanitario decentrato ha tanti pregi, ma non quello di gestire efficacemente le pandemie. La seconda cosa che non ha funzionato è stato il provincialismo, se non l’incompetenza, dell’approccio logistico, organizzativo e comunicativo per la gestione dell’emergenza. Non solo mancava, colpevolmente, un piano di prevenzione e di gestione del rischio pandemico – che è periodico se non permanente, come dimostrano i precedenti casi su SARS e MERS – ma ci si è rifiutati di apprendere dai modelli di successo nella mitigazione della trasmissione. Se il governo si fosse confrontato con le esperienze dei paesi che hanno saputo limitare sia le vittime sia i danni economici, o se avesse studiato attentamente l’enorme volume di ricerca scientifica prodotto sul Covid-19, avrebbe capito che in questa pandemia virale a trasmissione prevalentemente aerea, il profilo di rischio non è di natura territoriale o temporale, ma individuale e geolocalizzato, ed è correlato al grafo sociale di interazioni personali.

 

Mobilità, frequenza, intensità e natura delle interazioni sociali determinano gli indici di contagio. Le analisi sulle occasioni di contagio dimostrano che sono i “luoghi” e i relativi “grafi sociali” a spiegare la grande maggioranza delle trasmissioni virali. Eppure ancora oggi, con ottuso pregiudizio antiscientifico, l’isteria collettiva dei paternalisti considera la geolocalizzazione dei contatti stretti una minaccia mortale alla libertà. Al contrario, nel rispetto della privacy, essa è un dato chiave per combattere il contagio con interventi mirati e chirurgici, nonché – effetto non trascurabile – risparmiarci le “gride” manzoniane dei divieti via DPCM basati su irrazionali assunzioni logistiche territoriali o categoriali. La risposta razionale a tale innegabile – eppure ignorata dal governo italiano – evidenza empirica non è quindi il lockdown nazionale, ma la strategia delle “3T”: test, trace & treat. Si tratta di tre leve basate su risorse scarse, perché la capacità di testing è molto costosa e rigida nel breve periodo, il tracing richiede un grande sforzo organizzativo e sociale per garantire insieme efficacia e tutela della privacy, il trattamento impone la creazione di “Cliniche COVID” dove gestire le quarantene, lontano dagli ospedali e dalle famiglie.

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L’efficacia della strategia “3T” in Corea del Sud è evidenziata nel grafico sottostante, con un’impietosa comparazione con l’Italia in termini di rapporto tra capacità di effettuare test mirati grazie al tracing e quindi di interrompere le catene trasmissive. La task force italiana che si è occupata di raccomandare la strategia “3T” è stata la prima in Europa ad affrontare le complessità del coordinamento dei processi in correlazione con i vincoli di tutela dei dati personali. Ma non è servito a molto, e troppi mesi sono stati persi in sterili polemiche su app e architetture tecnologiche, interoperabilità dei dati e fenomeni di vero e proprio luddismo sanitario. Era chiaro fin dall’inizio, come hanno evidenziato i successi sudcoreani nell’interruzione tempestiva delle catene di contagio, che serve accedere – in modo rispettoso della privacy – al grafo sociale dinamico di ciascun cittadino, perché la ricostruzione ex post con i sistemi di tracing manuale è troppo lenta e gravosa, specie quando il numero di contagi è fuori controllo.

 

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Il ciclo di infezione del SARS-CoV-2 è infatti troppo rapido per essere bloccato da un processo inefficiente di testing e tracing, i cui effetti arrivano, in molti casi, dopo quasi due cicli trasmissivi, ovvero quando i buoi sono scappati non una ma due volte. Con l’aumento esponenziale del numero di contagi, infatti, è del tutto irrazionale attendersi un’adeguata capacità di tracing manuale, che può crescere al massimo in modo lineare, ammesso che Governo e Regioni si decidano a dedicarvi risorse mirate e coordinate, come avviene in Germania dove invece degli inutili navigator sono stati assunti nei giorni scorsi ulteriori 10mila contact tracer. Senza l’uso di specifiche tecnologie digitali, che invece possono scalare esponenzialmente a basso costo marginale, non si interrompono le catene trasmissive. Tracing e screening mirati, infatti, hanno nelle ultime settimane consentito di diagnosticare la maggioranza dei casi, ma non potrà più essere così con la seconda ondata di infezioni di massa.

 

La app “Immuni”, versione italiana del protocollo di notifica delle esposizioni proposto da Apple e Google e adottato da molti Stati europei, è elemento necessario ma non sufficiente di tale soluzione tecnologica, che ha bisogno di essere migliorata nella precisione e nella localizzazione, e va affiancata da soluzioni basate su device a basso costo (come le “bluetooth tags”) che non escludano dal processo bambini, anziani e persone che non possono usare smartphone di ultima generazione. Il tutto, supportato da efficaci azioni di “nudging” per favorire l’adozione da parte di una massa critica di cittadini, va collegato in modo diretto e immediato al backend informativo regionale, nazionale ed europeo, garantendo l’interoperabilità dei sistemi come chiaramente indicato nel report dalla task force ministeriale e nei documenti presentati ad aprile dal prof. Alfonso Fuggetta all’eHealth Network della Commissione Europea.

 

Una base da cui partire è il sistema di bio-sorveglianza della Regione Veneto, che è riuscito a ricostruire il grafo sociale statico – famiglia, lavoro, scuola, comunità di appartenenza – dei contatti incrociando i dati delle basi dati pubbliche, ma con grande sforzo e con elevato livello di imprecisione, a causa della mancata collaborazione delle istituzioni interessate, che evidentemente preferiscono veder aumentare le vittime piuttosto che condividere i propri dati. Le gravi carenze di coordinamento tra Stato e Regioni impediscono tuttora di avere un “data lake” nazionale (ed europeo) sufficientemente preciso e disaggregato da supportare sia analisi scientifiche sia decisioni basate su evidenze empiriche. Il Veneto ha dovuto basarsi solo sui propri dati per implementare un modello epidemiologico SEIR integrato con reti neurali per l’analisi predittiva delle catene di contagio, dei fabbisogni di testing, dei ricoveri ospedalieri e della saturazione delle terapie intensive.

 

Anche i processi di asset management delle risorse medico-sanitarie, così critici in casi di emergenza con risorse scarse, sono stati inadeguati. Ogni tampone, ogni macchina di ogni laboratorio, ogni respiratore, ogni posto di terapia intensiva, va identificato univocamente in modo digitale, e il suo utilizzo va monitorato centralmente, così da poter essere messo a disposizione per ricerche scientifiche e decisioni di allocazione di risorse. L’aspetto di intervento strettamente sanitario riguarda tuttavia una minoranza dei cittadini, con livelli di prevalenza inferiori al 5 per cento in media nazionale, quindi lontanissimi dalla pericolosa illusione dell’immunità di gregge. Ogni cittadino deve avere una scheda – digitale, personale e confidenziale - di analisi del rischio Covid-19, alla quale associare non solo i dati sanitari, ma anche quelli di tipo anagrafico e di mobilità. Non servirà solo per la pandemia, ma anche per la “precision medicine” del futuro, in previsione di un altrimenti insostenibile aumento della spesa sanitaria.

 

La conservazione di tale scheda può essere affidata a un “concessionario digitale” pubblico o privato, a scelta del cittadino. Tale ruolo di “Data Steward” è pienamente in linea con le indicazioni della European Data Strategy. In Italia ha invece prevalso il proibizionismo paternalista della privacy assoluta, che ritiene di dover impedire ai cittadini di utilizzare liberamente i propri dati a fini pubblici, anche a costo di un enorme prezzo di vite umane e di devastazione economica. Al contrario, ci si attende che la conferenza Stato-regioni concordi l’urgente interoperabilità di tutti i sistemi di dati pubblici, e venga costituito un cloud nazionale che consenta di monitorare, in forma anonima, tutti i processi di tracciamento e prevenzione, così da poter fondare i provvedimenti di salute pubblica su evidenze empiriche che misurino l’effettiva riduzione dell’indice Rt, come raccomandato dalla task force fin da marzo, e non su raffazzonati e paternalistici DPCM notturni. Lo Stato, invece di imporre un lockdown universale perché non riesce a identificare i pochi che effettivamente trasmettono il contagio (una grande maggioranza dei contagi dipende in realtà da una minoranza di “super-spreader”) deve definire in modo standardizzato un profilo di rischio individuale.

 

Per garantire la mobilità, nazionale ed europea, può essere adottato l’equivalente di un passaporto sanitario digitale, definito in base a una funzione obiettivo che privilegi le primarie finalità di sanità pubblica e di tutela dell’economia, contemperando tali interessi con l’opportuno livello di protezione dei dati personali. Chi è soggetto a restrizioni alle libertà di movimento, chi subisce il divieto di svolgere la propria attività professionale o imprenditoriale o chi viene sottoposto a quarantena deve ricevere automaticamente e immediatamente un indennizzo pubblico sotto forma di voucher. Il terzo elemento di insuccesso, e forse il più grave, è la crisi del modello istituzionale. Il Leviatano sanitario ha fallito. La promessa statale di garantire la salute pubblica in cambio della delega da parte dei cittadini è stata tradita. Ne hanno pagato il prezzo, oltre alle decine di migliaia di vittime, interi settori economici che su quel patto avevano basato le loro scelte e i loro investimenti: turismo, ristorazione, distribuzione, servizi alla persona, trasporti, educazione, cultura. Imprese, lavoratori, interi settori colpiti al cuore dalle limitazioni alla libertà personale imposte da governi incapaci di garantire le condizioni essenziali di salute pubblica.

 

Non tutte le istituzioni pubbliche democratiche hanno fallito: Corea del Sud, Taiwan, Giappone, Nuova Zelanda sono casi di democrazie liberali che hanno saputo limitare con efficacia sia le vittime sia gli effetti sull’economia. Lo ha fatto anche la Cina, ma in modalità non compatibili con i valori occidentali. La Corea del Sud, modello di gestione razionale dell’emergenza, ha affrontato la pandemia prima dell’Italia, senza mai applicare un lockdown generale, contenendo le vittime a poco più di 300, contro le nostre 36 mila, limitando la caduta del PIL 2020 a circa il 2%, contro il nostro -10% atteso, e usando la leva del debito pubblico per pochi punti di PIL, contro i nostri circa 30 punti di peggioramento. Se confrontato con i Paesi più efficaci, il modello italiano che tutto il mondo ci invidia è in realtà una Caporetto sanitaria, economica e istituzionale. La linea del Piave su cui attestarsi ora è quella della consapevolezza e della responsabilità. Parlamento e Governo costituiscano un ristretto Comitato di Salute Pubblica, esteso alle forze leali ai patti europei, al quale affidare tutti i poteri di gestione dell’emergenza, in stretto coordinamento con la Commissione Europea. L’incompetenza, il paternalismo, il populismo hanno causato morte e devastazione. Ora basta.

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