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Ecco il team che cura il Covid

Marianna Rizzini

Gli anticorpi monoclonali, antidoto al coronavirus, spiegati da chi li sta per portare in azione. Le possibilità di un’integrazione fra terapia e vaccino. Parla il microbiologo Rino Rappuoli

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Roma. Le foto delle cartelle sulla schiena dei bambini assiepati davanti alle scuole, l’ansia dei genitori che temono di vedere richiudere a breve il portone appena aperto, gli stop e la ripresa sul vaccino di Oxford, e quelle parole che due giorni fa il ministro della Salute Roberto Speranza ha detto a Repubblica: “Dobbiamo resistere altri sei mesi, a fine inverno saremo salvi”. Il motivo di ottimismo non è soltanto legato alla corsa sulla sperimentazione del vaccino che riparte dopo tre giorni di fermo per accertamenti su un caso avverso, ma anche all’altra strada che il ministro cita, strada complementare: “Stanno per arrivare cure innovative: a Siena il professor Rino Rappuoli sta facendo un lavoro straordinario sugli anticorpi monoclonali da cui verranno fuori farmaci efficaci”. E si cerca allora di capire come e quando funzioneranno, questi farmaci, per terapie che potrebbero permettere di accorciare i tempi dell’ansia legata al virus, in attesa del vaccino.

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Roma. Le foto delle cartelle sulla schiena dei bambini assiepati davanti alle scuole, l’ansia dei genitori che temono di vedere richiudere a breve il portone appena aperto, gli stop e la ripresa sul vaccino di Oxford, e quelle parole che due giorni fa il ministro della Salute Roberto Speranza ha detto a Repubblica: “Dobbiamo resistere altri sei mesi, a fine inverno saremo salvi”. Il motivo di ottimismo non è soltanto legato alla corsa sulla sperimentazione del vaccino che riparte dopo tre giorni di fermo per accertamenti su un caso avverso, ma anche all’altra strada che il ministro cita, strada complementare: “Stanno per arrivare cure innovative: a Siena il professor Rino Rappuoli sta facendo un lavoro straordinario sugli anticorpi monoclonali da cui verranno fuori farmaci efficaci”. E si cerca allora di capire come e quando funzioneranno, questi farmaci, per terapie che potrebbero permettere di accorciare i tempi dell’ansia legata al virus, in attesa del vaccino.

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Cerchiamo dunque Rappuoli, che è coordinatore del Mad (Monoclonal Antibody Discovery) Lab presso la Fondazione Toscana Life Sciences, ma che è anche chief scientist e head external R&D di GlaxoSmithKline Vaccines a Siena. Oltre a essere una delle persone più conosciute al mondo in tema di studi sui vaccini e applicazione delle biotecnologie al campo vaccinale, dagli Stati Uniti all’Italia, dalla prevenzione della pertosse a quella della meningite B. L’esperienza americana accumulata da ragazzo è servita, dice Rappuoli, per capire che anche persone normali possono fare cose eccezionali, e che dipende da come si organizza l’ambiente di lavoro.

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E oggi, mentre gli chiediamo notizie sugli anticorpi monoclonali, il microbiologo, che nel 2005 è stato insignito della medaglia d’oro al merito della Sanità pubblica, parla del team che lo ha affiancato in questi mesi di studi come di un “gruppo ristretto fatto di circa quindici persone: anche studenti, laureandi o ragazzi appena laureati che hanno lavorato giorno e notte” per arrivare a oggi, cioè al momento in cui si passa alla produzione con Menarini: “Siamo alla seconda fase, quella industriale, e per questa ovviamente saranno impiegate molte più persone. E nel giro di pochi mesi, diciamo per l’inizio del 2021, si dovrebbe poter iniziare la sperimentazione clinica”.

 

Chiediamo allora al professore di fare un passo indietro, e di raccontarci com’è stato possibile, per lui che all’inizio della carriera, negli Stati Uniti, si era sentito inizialmente intimidito dal “mito americano”, portare una squadra di ragazzi al punto di oggi: “Intanto dobbiamo distinguere la prevenzione dalla cura. Ci sono circa trecento studi oggi in corso sul coronavirus, che non è un virus in sé difficile da studiare. Solo che questa volta abbiamo fretta, e non ci possiamo permettere, in un certo senso, tutto il tempo che è stato impiegato in passato per lo studio di altri vaccini: anche vent’anni, se si pensa a quello per la meningite B. Ma ora, rispetto al coronavirus, è importante anche l’avanzamento su quella che potrebbe essere una terapia, e non soltanto una strategia preventiva: le due cose possono andare insieme e integrarsi”.

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Come funziona, allora, la cura che sta studiando Rappuoli? “Gli anticorpi monoclonali”, dice, “sono molecole prodotte partendo dal sangue di persone che hanno contratto il coronavirus e sono guarite. Queste persone guariscono perché il loro sistema immunitario attraverso le cosiddette cellule B, produce anticorpi capaci di neutralizzare il virus. Bisogna però trovare quelli più potenti”. Si tratta dunque di un “prodotto” naturale dell’uomo. Racconta Rappuoli che si è partiti subito, a febbraio, quando ancora il nord camminava sull’orlo del baratro senza saperlo, e a Roma c’erano i due coniugi cinesi ricoverati allo Spallanzani: “Proprio con lo Spallanzani abbiamo stretto un’alleanza che ci ha permesso di lavorare sul sangue fornito da persone convalescenti post Covid. Successivamente, con l’aumento dei casi, abbiamo stretto accordi anche con l’ospedale di Siena”. Una ventina di convalescenti, mesi di studio intensivo: “Con strumenti sofisticati, su circa un milione di cellule, abbiamo trovato le 450 capaci di rendere innocuo il virus. E, una volta individuati gli anticorpi per così dire potentissimi, si è potuto cominciare a produrli su larga scala”.

 

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A fine giugno, dunque, è iniziato il processo industriale alla Menarini: “Ci tenevamo che fosse un’azienda italiana”, dice Rappuoli, “visto l’esplodere dei nazionalismi in tema di coronavirus”. E se, per gennaio, la fase industriale sarà ultimata, poi si dovrà passare al terzo passo, quello delle prove cliniche. Come funzionerà? “Da un lato la cura si potrà applicare su persone positive al tampone, persone cioè su cui l’anticorpo potrà avere l’effetto di controllare e bloccare l’avanzamento, per evitare che la malattia si sviluppi”. Non si arriverebbe mai, insomma, all’ottavo o decimo giorno di virus, i giorni temuti finora per lo sviluppo delle complicazioni. Si intravede quindi la possibile futura integrazione cura-vaccino: “Usare la cura su tutti i positivi al tampone permetterebbe di evitare anche la diffusione del virus. Si interromperebbe la catena.

 

E, visto che a un paziente già positivo il vaccino non può essere dato, perché sarebbe troppo tardi, e vista la durata della protezione anticorpale di sei mesi, la cura stessa potrebbe essere fornita, in azione preventiva, e in attesa del vaccino, a chi lavora in prima linea negli ospedali e alle categorie di persone a rischio”. E se il vaccino comincia a essere davvero efficace dalla seconda o terza dose – con necessario distanziamento di giorni tra una dose e l’altra –, la cura anticorpale può essere di complemento, rappresentando una sorte di copertura-ponte. Si immaginano in anticipo, però, le polemiche social sulle possibili controindicazioni, ma Rappuoli rassicura preventivamente: “Non ci sono controindicazioni, si tratta di un anticorpo naturale”.

 

Ma perché si va così veloci su cure e vaccino, a differenza che in passato? “In questo caso c’è stato, come negli Stati Uniti, un investimento ingente da parte dello stato: le varie aziende lavorano senza doversi assumere in prima persona tutto il rischio finanziario, puntando solo alla velocità”. La concorrenza fa il resto, e per eterogenesi dei fini è come se tutto corresse verso l’appuntamento “fine inverno” come data di uscita dal tunnel.

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