(foto d'archivio Ansa)

roma capoccia

La Mecca del posto fisso, diario del concorsone

Andrea Venanzoni

Tra i padiglioni della Nuova Fiera dove sciamano le speranze di chi punta a essere assunto al comune di Roma

La sagoma grigiastra del padiglione est della nuova Fiera di Roma si staglia contro la tremolante linea d’orizzonte, circondata da una desolazione ocra di sterpaglie e da un distretto industriale privo di qualunque forma di presenza umana. Non oggi però: perché oggi, un assolato primo pomeriggio di fine giugno, afa senza speranza di redenzione che scioglie l’asfalto e frigge zaini, scarpe e menti, è uno dei giorni del concorsone di Roma Capitale. In palio 1512 tra dirigenti, funzionari e impiegati, definiti ‘istruttori’ nella lingua della burocrazia; distinti per famiglie di appartenenza, amministrativi, geometri, educatori, polizia locale. Ma per molti, per questa vasta umanità alla deriva che sbarca letteralmente da bus, navette, taxi, vetture private o che sferraglia sinuosa sul treno la cui fermata se ne sta centinaia di metri oltre, è l’occasione della vita.  Lo sbarco in Normandia concorsuale che potrebbe significare, nell’immaginario di un Paese ferito pandemicamente e socialmente e diviso tra garantiti e lavoratori autonomi, un posto di lavoro sempre più fisso, sempre più ambito, con diritti riconosciuti e l’accredito dello stipendio sicuro, succeda quel che succeda. Il primo segnale che accoglie il viandante concorsuale in arrivo dalla stazione è un ragazzo chino davanti all’unico albero nel raggio di due chilometri: ha lo zaino a terra, e il volto verso il fusto dell’albero. 

 

Snocciola commi, numeri, singoli articoli, e se gli si passa vicino si sente quel mantra giuridico che rimanda l’idea di un elaboratore elettronico fatto carne e sudore: una sorta di Zach   Galifianakis, che gioca al Casinò in ‘Una notte da Leoni’, tra funzioni ed equazioni matematiche che gli attraversano la mente, puro transumanesimo esondato dalla Silicon Valley e finito, per qualche ragione, in questo desolato spazio sulla Portuense. Il concorso è organizzato abbastanza bene, considerati i tempi. Ma come tutti i concorsi, e specialmente proprio per le misure di sicurezza sanitaria e di distanziamento assume connotazioni surreali. In primo luogo, i concorsisti si devono presentare muniti di una mole corposa di carta: autocertificazioni, documenti, dichiarazioni, esito cartaceo del tampone rapido effettuato, rigorosamente, nelle 48 ore precedenti, si vedono cartelline, raccoglitori, tutto alla faccia della digitalizzazione e della dematerializzazione della carta. Non è concorso per grandi socializzazioni, in secondo luogo. In genere, in ogni tornata concorsuale, c’è sempre un qualche capannello di amici che hanno condiviso il viaggio assieme o persone che si conoscono direttamente sul posto, legati da qualche esperienza comune, essere passati tutti per l’esame d’avvocato o aver fallito quel certo, precedente concorso, ad esempio. Nascevano amicizie, conoscenze, colleganze e pure amori, in alcune prove d’esame. Ora molto meno.

Certo, non mancano i concorsisti professionisti in trasferta che valigia al seguito, immancabile completo gessato nonostante i quaranta gradi e cellulare con auricolari blue tooth ragguagliano i parenti rimasti al Sud di ogni minimo spostamento. Sulla strada, ma senza Kerouac e la Route 66, al massimo qui abbiamo Brunetta e la Salerno-Reggio Calabria. Niente decentramento su base territoriale, per questo concorso. Tutto a Roma, per settimane intere di prove. “ 230.000 domande”, dice al telefono il Gordon Gekko pugliese, prima con tono sfiancato, ma poi lo  urla, scandendolo come una dichiarazione di guerra.  Immaginate l’intera popolazione di Messina riversata in queste afose giornate per vincere un posto al Comune di Roma.  Il distanziamento sociale si traduce in posti di blocco, con personale gentile, in giacca e cravatta nere stile Men in Black: sono gentili ma risoluti.  Impartiscono ordini al megafono, mentre i concorsisti si cimentano in percorsi a ostacoli modello gincana in un caldo micidiale, dove al posto di ‘coccobello coccofresco’ si urla “ci avviciniamo al nastro per favore, in fila indiana, acceleriamo un po’, grazie”.  Una esperienza burocratico-balneare che si sublima  in un villaggio vacanze distopico, alla Hunger Games. La popolazione concorsuale è varia. Dipendenti capitolini delusi dal loro attuale lavoro e dalla mancanza di prospettive, su tutti. “Se aspetto i concorsi interni, faccio prima ad andare in pensione’ confida una ragazza dai fluenti capelli biondi. Accanto a lei un signore sulla cinquantina annuisce e aggiunge “colpa dei sindacati! Se vai a vedere gli anni passati, hanno fatto concorsi interni con talmente tanta gente promossa che ormai è bloccato tutto per anni”. 

C’è l’avvocato provato dalla crisi. Il ragazzo di Crotone fresco di laurea. Un sessantenne da due anni in cassa integrazione, informatico Alitalia che con un sussurro di voce confessa “è dura, proprio dura, due anni così senza una prospettiva”. Ci sono quelli poi che vogliono la qualifica di funzionario, ma che non provano alcun entusiasmo all’idea di lavorare a Roma. L’idea è quella di prestare servizio per qualche anno da funzionario e poter così accedere alle prove da dirigenti in giro per l’Italia. Il paradosso di molti di quelli che stanno facendo il concorso è che vogliono fuggire da Roma Capitale senza ancora esserci entrati. Una volta passati tutti i posti di blocco per la identificazione e con il senso di vertigine – caldo e gincana – ci si accomoda, ben distanziati, in postazione. La prova si effettua con un tablet, sessanta domande, un’ora di tempo, ognuna ha tre risposte. Non facili, e infatti ad oggi le percentuali di promossi sono sconfortanti. Alla fine, quando ormai è sera, la stanchezza è tanta, la voglia di parlare molto poca. File di concorsisti stremati si incolonnano verso l’uscita, in attesa di un risultato che potrebbe cambiare loro la vita.

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