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Roma Capoccia

Tranne che per i No vax, con la Spagnola a Roma era tutto uguale

Andrea Minuz

Novembre 1918, grande polemica tra cinema e teatri. Artisti in piazza: “Vogliamo riaprire”. Tutto si ripete
 

 

Non c’era un “Globe Theatre” da occupare, né bauli da esporre a Piazza del Popolo. Ma anche durante la spagnola, cinema e teatri se la passarono assai male. Anche allora politiche sanitarie inconcludenti, sputacchiere insufficienti, complotti e sospetti che i germi fossero usciti dai laboratori, non cinesi o israeliani ma tedeschi (“un’epidemia di origine criminosa, creata ad arte dalla Germania!”). Anche se era stato proprio uno scienziato tedesco a individuare l’agente casuale dell’influenza (il “bacillo di Pfeiffer”….aaargh!). La rubrica con la conta dei morti era la più seguita sui giornali. Le interviste ai medici occupavano le prima pagine, ma non trovando due virologi d’accordo sulle misure da tenere, furono presto ridimensionate a trafiletto, poi scomparvero, per non deprimere un’opinione pubblica già provata dalla guerra e dalla fame.

Anche allora, disparità di trattamento in fatto di chiusure e riaperture a zone, colori, scaglioni, insomma, tranne che per i No-Vax, tutto come oggi. Così, tra ottobre e novembre del 1918, a Roma va in scena una lunga polemica tra cinema e teatri. Non “artisti in piazza contro i calciatori”, come titola “Il Giornale”, ma cinematografari contro grandi attori di prosa. Casomai, il calcio di quegli anni è il teatro d’arte. Il Consiglio Sanitario e la prefettura mostrano infatti un occhio di riguardo per la scena drammatica, ma poca sensibilità per varietà, cafè chantant e cinematografi, gli ultimi arrivati, che all’epoca si chiamano “Radium”, “Ideale”, “Mefisto”, “Orfeo” (l’“Orfeo”, tra via del Viminale e via De Pretis, poi demolito, sarà l’innesco di un formidabile memoir di ricordi cinematografici di Gabriele Baldini, allievo prediletto di Mario Praz).

 

Alla fine di ottobre, nel picco della prima ondata, “Il Messaggero” pubblica aggiornamenti costanti sulle chiusure disposte per contrastare “l’influenza”. Tra queste, la chiusura del cimitero del Verano nella settimana dei morti e quella di varietà, osterie, cinematografi, ma non dei “teatri nei quali si danno rappresentazioni drammatiche, liriche e operistiche”. In una nota inviata al Prefetto si parla di un provvedimento “urticante”, soprattutto per il modo sgangherato in cui è stato eseguito: “Quando i cinematografi erano aperti e vi era pubblico in sala, arrivò l’ordine di chiusura, e il pubblico fu fatto uscire d’autorità, dopo che aveva pagato il biglietto”. I ristoranti erano meno affollati, ma sui cinematografi non si scherzava. I gestori vanno a protestare nella sede del “Messaggero”.

 

“E’ venuta nei nostri uffici”, si legge nell’editoriale del 22 ottobre 1918, “una numerosa rappresentanza di persone, che dal varietà traggono il proprio sostentamento a dichiarare, non già a dilagnarsi del provvedimento che li ha colpiti nell’interesse della salute pubblica, ma di una evidente parzialità che si commette con questa procedura a zone, che sottilizza tra varietà, cinema e teatri propriamente detti”. Anche la neonata Società Regionale Romana dei Cinematografisti pubblica qualche giorno dopo un documento in cui denuncia restrizioni eccessive, “tassazioni singolari” e “l’odiosa disparità di trattamento in relazione agli altri pubblici spettacoli”, cioè il teatro drammatico, la prosa, la lirica, l’arte con la “A” maiuscola. Il cinema, divertimento di bassa lega, considerato uno spettacolo per deficienti, si sarebbe vendicato di lì a breve. Rubando gran parte degli spettatori della lirica e del gran teatro d’arte, coccolati dalle istituzioni.
 

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