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Roma Capoccia

Siragusa, il fotografo che trasforma le bruttezze di Roma in opere d’arte

Gianluca Roselli 
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Ci può essere bellezza nel brutto? Dopo aver passato in rassegna le fotografie della mostra Roma di Massimo Siragusa (al Museo di Roma in Trastevere, piazza Sant’Egidio 1/b, fino al 14 marzo) la risposta è: sì, a patto che nel brutto ci sia un segno vita. Il fotografo catanese, nella capitale da una trentina d’anni, nell’aprile del 2017 ha dato il via al progetto di raccontare la periferia romana, quell’immensa moltitudine che si è estesa sempre più, non solo negli anni cruciali della speculazione edilizia, ma fino ai giorni nostri. Basti pensare che il centro storico misura circa 15 km quadrati, mentre la periferia si estende per 1250. E’ qui dove la maggior parte dei romani vive. Luoghi che molti non hanno mai visto e che pure i residenti spesso non conoscono. Eppure stanno lì, sotto gli occhi di tutti.

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Le foto provocano uno strano effetto-pandemia ante Covid, visto che il lavoro è terminato nel 2019. “Non volevo persone, quindi andavo a scattare la domenica e nei giorni di festa. I negozi chiusi e l’assenza di esseri umani hanno involontariamente creato un’atmosfera da lockdown. Ma non era quella l’intenzione. Ho voluto far parlare il paesaggio, che per me ha un ruolo centrale, perché esprime l’identità di un luogo e di chi ci abita. Ho voluto raccontare le persone attraverso i luoghi”, racconta Massimo Siragusa.

 

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Le foto sono volutamente senza riferimento geografico. Ognuno ci riconosce quello che vuole: un tratto della Casilina, un murale di Torpignattara, un incrocio di Settebagni, le sale bingo della Tiburtina. Ma non è questo il punto. A contare è il susseguirsi di palazzi il più delle volte scrostati o anonimi, le automobili parcheggiate ovunque, e poi parrucchieri, centri estetici, palestre, carrozzieri, meccanici, bar, garage, ipermercati, compro oro, frutterie, gommisti, arredo bagno, palestre. Lezioni di zumba e menù-pranzo a 15 euro. Un grande patchwork dove ogni tanto spunta una nota stonata che però rende tutto magicamente armonico: un gladiatore di marmo, un murale sbiadito, animali di gomma, una palma finta, una scritta sul muro, un albero in fiore, un barocchetto romano, addirittura un motoscafo. Ma è proprio quell’orrendo miscuglio di cose e case e mostri architettonici ad attrarre lo sguardo come una calamita e alla fine si osserva quasi incantati, come a volerne di più. “La maggior parte dei romani vive in luoghi come questi. Una città sterminata di cui nessuno parla e che però tutti vedono. Per trovarne una traccia culturale bisogna risalire alle borgate di Pierpaolo Pasolini. Come se la città quasi se ne vergognasse. Ma poi non è così perché, dopo l’inaugurazione, diversi amici mi hanno chiamato per dirmi che finalmente qualcuno aveva posto attenzione al luogo dove sono nati e cresciuti e magari ancora vivono. E ne parlavano con orgoglio”, sostiene il fotografo. Negli ultimi anni in tanti hanno provato a ri-raccontare questi luoghi, ognuno a modo suo. Chi con lo sguardo su vite disperate, come Sacro Gra di Gianfranco Rosi. Chi con il folclore macchiettistico della nuova commedia italiana, come il Bastogi di Come un gatto in tangenziale. Chi con la musica, perché poi è da lì che arriva la maggior parte di vecchie e nuove generazioni di rapper e trapper. Nelle fotografie di Siragusa il racconto però è muto, lo sguardo neutro, non c’è nessun giudizio o tesi da dimostrare. C’è solo l’occhio della fotocamera, un road movie per immagini, dove in ogni strada, palazzo e inquadratura ognuno può immaginare il flusso di vita che scorre. “La grande periferia è venuta su senza regole, in modo caotico, una disarmonia cacofonica senza capo né coda. Ma questo credo che rispecchi proprio l’anima dei romani. In quel disordine c’è un collage di storie ed esistenze incredibile”, osserva Massimo Siragusa. Che nei suoi due anni di “viaggi urbani” ha colto due tipi di città: la periferia vitale, come può essere Centocelle, il Trullo o Tormarancia, quartieri con un’anima ben definita, e le citta-satellite, sorte dal nulla e dove non c’è nulla. A un’ora di traffico dal centro. “Mi viene in mentre il Torrino. O il Parco Leonardo: un agglomerato di palazzine intorno a un centro commerciale e nient’altro. Oggi è pieno di case vuote e cartelli vendesi. Anche chi era andato a vivere lì attratto dalle abitazioni più grandi, magari col terrazzo, si è pentito e se n’è andato…”. Siragusa è uno dei più importanti fotografi italiani, vincitore di 4 World Press Photo altri prestigiosi premi, insegnante allo Ied. “Dopo questa immersione nel paesaggio urbano il prossimo progetto sarà naturalistico, tra l’Etna e il mare, vicino alla mia Catania…”, dice, alla fine. 

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