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Che fortuna, Roma. Unta, bitorzoluta e senza monopattini

Giuliano Ferrara

Disastro, pericolo, fonte d’ansia. Viva le buche della Capitale che tengono lontane le trottinette dalle nostre passeggiate

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Parigi si sveglia e gira in monopattino, la trottinette. Pullulano. Si moltiplicano a vista d’occhio, sono un fatale e apprezzato fenomeno nuovo, insomma una moda boulevardiera. Sfrecciano su strada, sui marciapiedi, sulle ciclabili, con il motorino elettrico a 25 all’ora, truccati anche di più. A mandarli sono giovani e adulti, ragazze capelli al vento, e zainetto, impiegati con la cartella, studenti, bobo e onesti lavoratori, insegnanti, bancari, intellos e fannulloni. Il monopattino riflette la mixité sociale e la mescolanza etnica, ce n’è per tutti. Ci si abbona, si prendono a poco prezzo da società di gestione della sharing economy, si afferrano alla svelta raccattandoli a ogni angolo di strada, riversi sui trottoir, appoggiati al lampione, in bilico contro un muro o la ringhiera di un ponte, oppure più raramente ritti sul cavalletto, e si percorrono itinerari corti, medi e lunghi, giorno e notte. Alla fine del viaggetto si gettano a terra, ci se ne libera come di un rifiuto urbano nella discarica o parcheggio universale senza perimetri e senza regole. Le trottinette sono naturalmente un popolo ingombrante, come tutto ormai sono un popolo, e anche uno status, un segno di distinzione, di scelta personale, l’opzione leggerezza, sostenibilità, ecologia al massimo grado, flessibilità senza pari, spirito infantile e sbarazzino.

  

  

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A me sembrano un fastidioso disastro, un intralcio e un pericolo pubblico, un’ossessione per chi cammina e una fonte d’ansia a vederli stretti tra le auto in lamiera massiccia, tra i bus, i furgoni e altri mezzi pesanti o motociclette o scooter che non li vedono, i monopattini, li avvistano con difficoltà, spesso li agganciano con i paraurti cromati, li urtano, e ne nascono rovinose cadute, risse, insulti, sberleffi, piccole liti civili e incivili tra dieselisti di base e trottinisti vaghi e sognanti. 

 

 

Il traffico è comunque così, direte, anche le biciclette hanno fatto la loro parte nell’incasinamento, ma al confronto con la trottinette la bicicletta è un cavallo di due secoli fa, ha un suo codice perfino arcaico, si monta e si scende, movimenti a loro modo complessi, si inforca e si conduce con uno sforzo corporale e una tecnica attenta ai riflessi, alle circostanze, ai flussi. Il monopattino no. E’ modernista, cubista, un angolo più o meno retto, è minimalista. Suggestiona, come no, ed è una memoria infantile invecchiata. E’ intrusivo, molesto per chi cammina, e naturalmente lo si scopre comodo al di là di eventuali difetti.

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A Parigi si sono fatti venire dei dubbi, c’è chi lo esorcizza come una invasione di locuste, chi lo trova un mezzo sporcificante, disordinato, uno strumento rischioso di individualismo e insieme di massificazione di cui si poteva forse fare a meno, e che comunque deve essere regolato, perché così non si può continuare. Hanno le loro ragioni. E comunque dovrebbero venire a Roma, dove al posto dei boulevard ci sono le buche i dissesti il pattinaggio scivoloso sui sanpietrini e sopra tutto lo scetticismo lento in doppia e tripla fila sul lirismo leggero e fatuo del movimento improvviso e zelante. Quella repentina decisione di raccogliere, spingere con una mossa del piede, mandare anche in salita un mezzo irrisorio, un coso così, per poi abbandonarlo all’incuria di strada fra i pedoni: ecco una fanfaluca agile che una città priva di metropolitana o di scale mobili, bruciante e risonante di bus come carrozzoni pestiferi e barcollanti, oppressa da superpullman e furgoncini per tutti gli usi, città bitorzoluta e unta, non può pensare di avere, probabilmente per nostra comune fortuna. Ci mancherebbe soltanto il monopattino.

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