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Ilda ciao

Maurizio Crippa

Boccassini va in pensione col broncio e insalutata. Gli intoppi più d’uno, l’ossessione per il Cav.

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Senza celebrazioni e senza un cin cin, quasi senza salutare, Ilda Boccassini è uscita per l’ultima volta dal Tribunale di Milano, direzione pensione dopo 41 anni di servizio nella magistratura e al compimento dei 70 anni (domani, 7 dicembre). Un’uscita di scena silenziosa, spigolosa, del resto da tempo programmata. Così come erano in qualche modo annunciati, o messi in conto, il mancato saluto ufficiale e il broncio – che è stato il suo brand professionale, “come avesse l’inferno in gran dispitto” – ma che negli ultimi anni s’era ancor più corrucciato, per una serie di motivi, di inciampi, di porte chiuse. A partire soprattutto dal tentativo di ottenere la nomina a procuratore capo a Milano nel 2015, finita in sonora sconfitta. E forse in quell’assenza ai funerali (preferì un saluto privato) di Francesco Saverio Borrelli, e soprattutto in quel necrologio sul Corriere, “Dopo di te tenebre”, c’è la sintesi dei rapporti arrugginiti da tempo negli uffici della procura, di rancori non addomesticati. Poi c’era stata anche l’uscita obbligata (da regolamento, l’incarico va lasciato dopo otto anni), ma vissuta assai male, dalla guida della Direzione distrettuale antimafia di Milano, che dovette lasciare nel 2017. Francesco Greco, che nel frattempo era diventato procuratore nel ruolo che Boccassini aveva agognato, scrisse ai colleghi una lettera piuttosto formale, un pubblico elogio per “il rigore professionale, la riservatezza, la velocità nell’assumere decisioni e la conoscenza del fenomeno mafioso sono la cifra dell’impegno di Ilda che continuerà a garantire con la sua presenza attiva in ufficio”. Soltanto che la “presenza”, Greco aveva deciso fosse un trasferimento a capo della sezione Misure di prevenzione, ma Ilda la Rossa non aveva alcuna intenzione di ricoprire un ruolo giudicato, da lei, troppo poco consono, rifiutò con una risposta secca.

 

Il carattere, non lo si può cambiare. A litigare con i colleghi, che spesso si sentivano prevaricati nelle indagini e nelle prerogative, aveva iniziato dai tempi della sua prima venuta a Milano, quando, dopo anni di gavetta oscura, si trovò tra le mani l’inchiesta della celebrità, la Duomo Connection, quella sulla infiltrazione mafiosa a Milano, che condusse con Giovanni Falcone. Non fu un gran successo in realtà, come prova generale di Mani Pulite: il sindaco Paolo Pillitteri fu archiviato già nelle indagini preliminari, tutti gli altri assolti in appello. Ma fu quel lavoro a unirla a Falcone, il magistrato-amico a cui ha votato un’eterna memoria. Chiese il trasferimento in Sicilia, però tornò in tempo per sostituire nel pool Tonino Di Pietro, datasela a gambe. Ma ormai erano i cascami dell’inchiesta, e nelle foto da cartolina dell’album giustizialista non è mai la reginetta.

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Le foto da rotocalco per cui resterà impigliata sono invece quelle della signora Karima el Mahroug, mostrificata in indagini e commenti pruriginosi come Ruby Rubacuori, quella che Boccassini in requisitoria arrivò a definire, in modo persino velato da razzismo, “una ragazza intelligente, di quella furbizia orientale, propria delle sue origini”, che “riesce a sfruttare il proprio essere”. E se non razzismo, era una supponente esibizione di superiorità antropologica che è stato uno dei tratti distintivi della sua personalità pubblica, nonché di tutta la storia del pool di Milano. La ricorderemo, soprattutto, Ilda Boccassini, per il suo atteggiamento quasi ossessivo nei confronti di Silvio Berlusconi, soprattutto nelle indagini attorno alle “cene eleganti” e condite di pruderie. E finite con l’assoluzione del Cav., niente “prostituzione minorile”. Ilda ciao, non proprio una stagione di giudiziaria e di calvinismo manettaro che ci mancherà.

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