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Ascoltando "Lay lady lay” ho sentito un profumo di Donald Trump

Camillo Langone
Sono rimasto sveglio fino alle quattro del mattino per ascoltare “Lay lady lay” in loop. Il giorno dopo ho letto le rimostranze dei poeti non musicali, legittime, ma purtroppo nessuna era firmata da un Zanzotto o da un D’Annunzio, e perfino quelle di Baricco.
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Sono rimasto sveglio fino alle quattro del mattino per ascoltare “Lay lady lay” in loop. Il giorno dopo ho letto le rimostranze dei poeti non musicali, legittime, ma purtroppo nessuna era firmata da un Zanzotto o da un D’Annunzio, e perfino quelle di Baricco (Baricco! Baricco che si mette a discettare di poesia e non poesia come fosse Benedetto Croce! E io che lo pensavo, se non altro, furbo…). Sono rimasto sveglio fino alle quattro del mattino per ascoltare “Lay lady lay” e al settantasettesimo “Lay across my big brass bed” ho sentito un profumo di Donald Trump. Dylan è un predicatore ebreo, a volte (all’altezza di “Jokerman”) anche cristiano tuttavia sempre ebreo, un profeta incomprensibile (perfino a se stesso, come ha ricordato Mogol) e però chiaramente veterotestamentario: maschilista e misogino peggio di san Paolo. Dunque un fratello maggiore. “It’s all over now, baby blue” e “It ain’t me, babe” rappresentano la donna come bambola che è meglio non dia troppo fastidio, altrimenti “Go melt back into the night, babe”. Poi ho letto che Joyce Carol Oates ha invece visto in Dylan l’anti-Trump: c’è proprio un Dylan per tutti, lode a Yahweh per avercelo dato.
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