Giorgia Meloni (Ansa)

strategia e tattica

Meloni vola in India e ad Abu Dhabi per sanare i cocci lasciati dal governo Conte

Stefano Cingolani

La premier in viaggio per ragioni di politica estera e di affari economici. Due tappe: la più proficua potrebbe essere da Modi, la più spinosa quella araba

Giorgia Meloni parte per un viaggio che la porterà in India e poi negli Emirati. Due tappe importanti per ragioni strategiche e tattiche, di politica estera e di affari economici. La più proficua può essere quella indiana, la più spinosa quella araba. A Nuova Delhi incontrerà il primo ministro Narendra Modi, che sta giocando un ruolo ambizioso a cavallo tra l’asse euro-atlantico e quello euro-asiatico.


La sua posizione sulla Russia e la guerra in Ucraina è ambigua, come si è visto anche al G20 di Bangalore, ma l’India cammina su un filo sottile e cerca di trarne vantaggio. Dopo la crisi dei marò, le relazioni sono state riaperte nel 2017 dal viaggio di Paolo Gentiloni, allora primo ministro; in questi cinque anni, però, sono andate avanti a passo lento, nonostante la messe di accordi sulla carta. Nel 2018 è andato Giuseppe Conte e ha portato una dichiarazione congiunta rafforzata da un piano di collaborazione quinquennale. Poi Modi a Roma ha firmato con Mario Draghi un protocollo sull’energia. Il dossier più importante riguarda la Difesa. Secondo il quotidiano Indu potrebbe essere annunciato un accordo di cooperazione che verrebbe precisato successivamente. Ma c’è da sciogliere un nodo intrecciato proprio dal governo Conte-Salvini: il protocollo sulla Nuova via della seta. Agli indiani non piace, lo considerano un ostacolo politico ed economico; tuttavia sta ancora lì con tanto di firme, Giorgia Meloni lo ha criticato, vorrà e potrà fare marcia indietro?

 

Sanare i cocci lasciati dal governo Conte è ancor più importante ad Abu Dhabi. I rapporti economici sono tradizionalmente floridi. L’Italia è il principale partner commerciale degli Emirati Arabi Uniti nell’Unione europea, gli scambi bilaterali non petroliferi hanno stabilito nuovi record nei primi nove mesi del 2022 (6,6 miliardi di euro, con un aumento del 15,5 per cento). Sono presenti 600 aziende italiane. Per l’Eni gli Emirati svolgono un ruolo importante nella raffinazione, nella chimica, nell’esplorazione offshore. Ma l’Italia deve togliere di mezzo le scorie dell’Alitalia e il blocco all’export ad alcuni sistemi d’arma votato in Parlamento.

Facciamo due passi indietro. Nel 2014 l’Alitalia è a terra da tutti i punti di vista. Il governo guidato da Enrico Letta avvia una trattativa con Etihad, la compagnia degli Emirati, che nell’agosto annuncia a Matteo Renzi, arrivato nel frattempo a Palazzo Chigi, la decisione di acquistare il 49 per cento di Alitalia. Sembra la svolta definitiva, invece tre anni dopo c’è ancora bisogno di capitali. Etihad non è disposta a staccare altri assegni se non dopo una profonda ristrutturazione. Sono in ballo 400 milioni di euro. Il piano industriale, che prevede la vendita dei servizi a terra e una riduzione di personale, viene bocciato dai dipendenti con un referendum. Etihad esce, Alitalia viene commissariata e lì comincia una vicenda giudiziaria che porta la procura di Civitavecchia a incriminare tutti i vertici più i membri del consiglio di amministrazione e i top manager di Intesa e Unicredit, le banche che hanno sostenuto il salvataggio, in tutto 21 persone accusate di bancarotta fraudolenta. L’emiro Mohammed bin Zayed bin Sultan Al Nahyan lo considera un affronto, rivendica la sua amicizia con l’Italia, il soccorso a Unicredit dopo la crisi finanziaria del 2008-2010, il sostegno alla Ferrari, la valorizzazione dei brand italiani e, ultimi ma non certo per importanza, i contratti nel settore della Difesa. E qui viene l’altra brutta rogna. 

Nello scacchiere del Golfo Persico, gli Emirati, a differenza dal Qatar, sostengono l’Arabia Saudita contro l’Iran e combattono nello Yemen contro gli Huthi, i ribelli sostenuti da Teheran. Il conflitto ha visto un’escalation lo scorso anno con attacchi anche sul territorio di Abu Dhabi. Il governo gialloverde ha bloccato l’uso di armi italiane nello Yemen da parte dei sauditi e degli Emirati e il governo rossogiallo ha revocato gli accordi commerciali, un altro schiaffo per Mohammed bin Zayed. Luigi Di Maio, allora ministro degli Esteri, si era speso per il blocco totale. Le restrizioni sono state poi allentate, ma non per le bombe. L’Italia non è il solo paese ad aver sollevato la questione: Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno tirato il freno a differenza dalla Francia. Sulla ricaduta del crac Alitalia Giorgia Meloni non può fare molto, visto che è in mano alla magistratura, più margini ci sono sulle armi, magari nell’ambito di una collaborazione strategica mentre in medio oriente si stanno levando nuovi venti di guerra.
Stefano Cingolani

Di più su questi argomenti: