Lombardia e ministeri: così Salvini, per evitare il processo interno, insidia la Meloni

Valerio Valentini

"Bisogna fare qualcosa, così si finisce male", dice Giorgetti. Ma cosa? In Veneto e Lombardia parte la raccolta firme per chiedere il congresso al capo della Lega. Che però rilancia, provando a scaricare sul prossimo governo le tensioni del partito, e rinnova la propaganda contro l'Europa. La battaglia per il secondo mandato di Fontana può diventare decisiva

Il massimo è “qualcosa”. Nulla più. “Qualcosa” è quello che, secondo Giancarlo Giorgetti, “bisognerà fare” con Matteo Salvini, “perché così non si va avanti”. Ma cosa? Su questo, nessuno azzarda mosse che non siano poco più che simboliche. Sarebbe insomma la storia di un partito che preferisce agonizzare nel mito del culto del capo, anche quando tutti lo danno un po’ per bollito, piuttosto che mettere in discussione se stesso. Se non fosse che da questa storia, da questa agonia, dipende anche il destino del prossimo governo, quello di Giorgia Meloni.

Gianpaolo Dozzo, uno dei dirigenti storici della Liga veneta, pronostica già il copione: “Dovendo recuperare credito agli occhi del partito, Salvini tenterà di mettere nell’angolo la Meloni attraverso una serie di imbarazzanti iniziative, soprattutto a livello europeo”. Ha già iniziato. Commentando la vittoria del centrodestra che è però anche la sua sconfitta, ha mandato “un bacione alla von der Leyen”: come ai bei tempi.  “Ma stavolta – prosegue Dozzo – l’azzardo potrebbe portare alla  rottura del centrodestra”. Scenario, questo, paventato anche in Forza Italia, se è vero che nelle raccomandazioni dispensate dal Cav. ai  sottoposti c’è quella di stare cauti, per ora, perché, questo è il senso del ragionamento, Salvini inizierà a picconare sulla Meloni, e lei a quel punto avrà bisogno di noi per stabilizzare il governo.

E però questa bizzarra resistenza del fu Capitano diventa un problema non da poco per la Meloni, specie perché la via per riconquistare il consenso perduto, secondo Salvini, è già tracciata: tornare a maneggiare  i temi identitari,  il celodurismo, il dagli all’Europa. Queste sono le indicazioni che il suo staff invia ai parlamentari. E qui sta la preoccupazione della Meloni, che invece ora sa di dover recitare la parte di quella brava, responsabile. E allora ecco la frenesia, dissimulata mica tanto, con cui i pretoriani di Donna Giorgia, ancora ieri mattina, contattavano i colleghi leghisti per capire che tempi e che percorsi avrebbe seguito il rito del processo padano: “Gli fate la festa oppure no?”.

E non erano gli unici, in quelle ore, a sbuffare per i soliti, estenuanti attendismi dei tanti signor tentenna.  “Io, da ex segretario regionale, ho chiesto le dimissioni del commissario in Lombardia”, dice Paolo Grimoldi, a guida della fronda degli arrabbiati. “Ma vorrei che sulle dinamiche nazionali si esprimessero i Romeo, i Molinari, i Fedriga, i Giorgetti, i Bossi”. Chi li ha visti? L’unico a parlare è Luca Zaia: “E’ innegabile  come il risultato ottenuto dalla Lega sia assolutamente deludente, e non bastano semplici giustificazioni”. Sembra l’apertura delle ostilità, e invece è uno sbuffo. Perché poi pure il Doge si limita, e deve sembrare una gran cosa, a chiedere maggiore “collegialità”. E così nel pomeriggio, quando Salvini convoca in assemblea i suoi governatori, dall’incontro esce una nota di condivisa unità. 

Ma se i supposti caporali della dissidenza disertano,  alle truppe non resta che aggrapparsi a gesti di testimonianza. “Preso atto della situazione politico-elettorale, con la presente, siamo a chiedere l’immediata convocazione del congresso regionale”: questa è l’improvvisata traccia con cui, sia in Veneto sia in Lombardia, si avvia una sottoscrizione per avviare la conta interna. “I congressi li faremo, sì, ma a partire dall’anno prossimo”, taglia corto Salvini. “Fa orecchie da mercante”, sbotta allora Toni Da Re, europarlamentare, ex capo della Liga. “Salvini dovrebbe rimettere il mandato al congresso, subito, e magari ricandidarsi. A confronto suo,Letta fa un atto di grandissima dignità. Ma la dignità è come il coraggio, se non ce l’hai…”.

Salvini comunque a darsela ci proverà. E lo farà non tanto facendo i conti in casa propria, ma andando a insidiare la Meloni. Quell’insistere così ossessivo su “quota 100”, quel rivendicare quasi molesto che “noi eleggiamo 100 parlamentari”, a cos’altro serve, se non ad avviare una partita negoziale con la leader della coalizione, se non a ricordarle che né al Senato – dove i 29 eletti del Carroccio saranno decisivi, su una maggioranza di 112 – né alla Camera – 65 deputati su 235 – può fare a meno di lui? “Vedrete che Giorgia a Palazzo Chigi vorrà andarci a ogni costo”, ragionano  a Via Bellerio. E Salvini vuole allora alzare il prezzo:  o una cospicua ricompensa sui posti di governo, una cosa che lui potrebbe sventolare sul grugno dei suoi oppositori interni; o la garanzia di una ricandidatura di Attilio Fontana in Lombardia. Oppure, perché no?, entrambe. 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.