Palazzo Chigi

Draghi contro "gli aggiornati". Così il "Parlamento si sta fermando"

"Noi non siamo fatti così”. E significa che viene da un mondo dove anche la dilazione, il debito, è regolato"

Carmelo Caruso

L'ultimo tic dei partiti è "ci aggiorniamo". Dalla Concorrenza alla delega fiscale. Il premier teme la "riunite", scorie del metodo Conte. Sugli atleti russi "dossier scivoloso"

Cosa fanno? Si “aggiornano”. E’ con il salamelecco del moderno rintronato, con il tic dell’imbruttito, che stanno “disinstallando” le riforme. Non è la quarantena da Covid di Mario Draghi che ha messo il fiatone al governo ma sono i partiti, l’Aula, che ora si stiracchia. Con quella faccia un po’ così, da leader suonatelli, grazie al contributo dei parlamentari, che vivono queste settimane di “Fiesta mobile”, si sta consumando in silenzio la prima “crisi senza crisi”. E’ come nella partita del film Blow Up dove si gioca senza racchetta e senza palla. Si sente solo il suono.

 

La legge sulla Concorrenza? “Ci siamo quasi, mancano solo piccoli dettagli”. La riunione è però “riaggiornata” al 26 aprile e si tratta sempre di un’occasione “per lavorare ancora”. E sulla Giustizia? “Alla Camera ci siamo quasi. Certo, poi c’è il Senato, ma non sembrano esserci problemi. Forse”. Da quanto tempo si sente ripetere questa promessa? C’è poi la delega fiscale che è stata posticipata a maggio. Non si è capito bene, ma da quello che assicurano dalla Lega, dopo la sceneggiata di Matteo Salvini con Draghi, le migliori menti del Carroccio stanno lavorando per “scongiurare possibili aumenti. State tranquilli”. E chiunque, quando legge che sono chiusi a ragionare, non può che preoccuparsi. Ebbene, incubi a parte, non è solo la vecchia pratica dell’“ammuina”, la cospirazione della democrazia, l’astuzia ma a pugni chiusi. Adesso è “moine e caffè”, la simulazione disonesta del “non possiamo mettere in difficoltà il governo” salvo farlo ma senza rivendicarlo.

 

Raccontano che ogni giorno Draghi telefoni a Federico D’Incà e sia sempre più angosciato. E’ il ministro cireneo per i Rapporti con il Parlamento, uno che, povero, trascorre le colazioni a parlare di riforma del settore idroelettrico e di Def: pane, burro e commissioni. Cosa accade? A Palazzo Chigi dicono: “Ogni giorno Draghi fa moniti. Forza! acceleriamo. Non perdiamo altro tempo”. E poi? “Il risultato si vede”. Niente. I partiti adottano la strategia “riavvia domani”. Spostano l’aggiornamento un po’ più in là. E lo possono fare. “Tanto c’è la guerra”. E’ l’alibi. Sanno che Draghi non si può dimettere. Deve occuparsi perfino del grande dibattito sull’opportunità di non far giocare gli atleti russi, che “è un tema scivoloso” e che avrebbe un senso ma solo se fosse l’embargo sportivo internazionale e non una improvvisata da singola nazione.

 

Ecco, si prenda adesso questa altra “piccola asperità” che riguarda invece l’idroelettrico. Di solito sono sempre “piccolezze”. E’ la parola “spia” che segnala la paralisi. Fa parte, anche questa, di quella riforma della Concorrenza che, a sua volta, includeva le nuove norme sui balneari. Il problema è ora l’articolo 5 che introduce, respiro profondo, “procedure di assegnazione delle concessioni di grandi derivazioni idroelettriche, secondo parametri competitivi, equi e trasparenti”. Questa sezione non è gradita al Pd che ne chiede (ricorda qualcosa?) “la proroga”. Sono tutti questi fatti messi in fila che portano Draghi a credere “che il Parlamento si è fermato”. Non si possono utilizzare neppure i vecchi bulloni “palude”, “sabotaggio”, la vecchia ferraglia del lessico parlamentare. C’è un salto ulteriore.

 

E’ l’evoluzione, lo spillover, del contismo, quel “salvo intese” che ora si sta modificando e ingabbia il governo nel “ci aggiorniamo”. E’ la stessa elica che sta aggredendo un corpo diverso e che produce varianti. Per Conte era la fiala che gli permetteva di sopravvivere mentre per Draghi è il suo “mal di vivere”. Ogni volta che Draghi vede l’attività parlamentare interrompersi dice “noi non siamo fatti così”. E significa che viene da un mondo dove anche la dilazione, il debito, è regolato da condizioni severe, gli interessi, e mai lasciato alla vaghezza. E’ come per le elezioni francesi.

 

Tutti sanno che Draghi, si augura la conferma di Macron, ma lui sì che davvero, in quanto “presidente” in carica, non può dirlo. L’altro, Conte, il leader stanislavskij, “lo straniato”, quello che tra Le Pen e Macron non sa scegliere perché “rappresento un partito politico italiano, non posso dare indicazione di voto”, invece non lo dice. E’ riuscito a far giganteggiare Giorgia Meloni perché, come pensano al governo: “Lei, da leader politica, ha quantomeno scelto”. Solo ora che il “salvo intese” è stato assimilato dal Parlamento tanto da evolvere nel “ci aggiorniamo” si può comprendere la pericolosità delle “inderllocuzioni pretermesse” di Conte. E’ chiaro qual è la sua eredità? Non pensa come parla, ma peggio. Ha insegnato a un Parlamento a pensare come parla lui.

 

  • Carmelo Caruso
  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio