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Orlando: “Sul Green pass, sì al modello Macron”

Claudio Cerasa

L’idea francese. La nuova fase della pandemia. I licenziamenti nella normalità. Le  modifiche  al reddito di cittadinanza. E “la rivoluzione garantista” di Draghi e Cartabia. Intervista al ministro del Lavoro

La pandemia, le imprese, gli incentivi, i licenziamenti, la giustizia, il rapporto con il M5s, il reddito di cittadinanza, il futuro del governo e i prossimi mesi cruciali. Andrea Orlando è il ministro del Lavoro del governo Draghi e nessuno meglio di lui forse sa quanto avere un paese vaccinato il prima possibile sia una condizione necessaria per sperare di ridare all’Italia il lavoro che merita. Ci si può dividere su tutto quello che si vuole ma su questo no. E nonostante la sua proverbiale diplomazia, il ministro Orlando, in questa conversazione con il Foglio, non ha dubbi e va giù dritto: “Onestamente non vedo una sola ragione razionale per non prendere spunto da quello che il presidente Emmanuel Macron sta facendo in Francia”. In Francia, come è noto, Macron ha scelto, a partire da mercoledì prossimo, di aprire le porte dei ristoranti, dei bar, dei musei, dei mezzi di trasporto, dei treni, degli aerei e dei cinema, e di tutti i luoghi al chiuso che possono trasformarsi in focolai di contagi, solo a coloro che si trovano in possesso di un Green pass. Chiedere il Green pass per tornare alla vita normale non è chiedere la luna: significa chiedere un ciclo di vaccinazione completo o un tampone effettuato entro le 48 ore o essere guariti. E anche se alcuni esponenti dell’esecutivo sono dubbiosi sul modello Macron (i leghisti, per esempio), Orlando invita il governo di cui fa parte a riflettere seriamente su questo punto.

“Naturalmente, essendo un elemento che impatta sul sistema della libertà di movimeno e di accesso, un’eventuale decisione in questa direzione deve essere supportata da una valutazione di carattere scientifico. Ma onestamente no: non credo che ci sia un’impercorribilità in assoluto. Il mio personale giudizio è che, se possibile, sarebbe preferibile arrivare a quell’obiettivo senza usare le leve dello stato paternalista e sono sempre convinto che le buone ragioni possono spingere le persone a compiere un gesto che è insieme un dovere di solidarietà sociale e civile. Dopo di che, se la presenza della variante dovesse crescere ancora e le vaccinazioni non dovessero crescere altrettanto, il tema delle nuove misure da adottare ovviamente si riproporrà”.

Un’altra variabile che il governo andrà a osservare con attenzione nei prossimi mesi è quella legata all’impatto che avrà sul mercato del lavoro lo sblocco dei licenziamenti. E’ possibile, ministro, offrire già oggi una stima su che impatto ha avuto la fine del blocco?

“Allo stato attuale, in linea di massima, l’andamento non individua una dinamica particolarmente diversa rispetto a quella precedente alla pandemia. Il blocco, in questi mesi, come sappiamo, non ha evitato i licenziamenti anche perché non ha impedito i licenziamenti per cessazione di attività e non ha impedito i licenziamenti negli ambiti in cui ci si trovava di fronte a contratti a tempo determinato. Su questo punto, come è noto, la mia preoccupazione è sempre stata questa: che sotto la coperta della cassa integrazione ci fossero molte crisi destinate a esplodere contemporaneamente in una fase in cui la ripresa del paese non permette di riassorbire tutti”. 

“In parte – dice Orlando – questo purtroppo sta avvenendo perché la cassa Covid è stata una specie di anestetico che ha rallentato alcuni orientamenti e alcune decisioni che le imprese probabilmente avevano già in animo da prima. E’ un dato che deve preoccuparci anche se credo ci siano ancora i presupposti per affrontarlo con successo. E anche le aziende che oggi vediamo in difficoltà, da Whirlpool-Embraco, al caso di Gkn fino alla Gianetti ruote, sono aziende che scontano problemi pregressi, come capita purtroppo spesso nella filiera dell’automotive, per la quale credo ci sia bisogno a prescindere dal blocco licenziamenti di un tavolo ad hoc per promuovere le ristrutturazioni del settore”. 

In concreto? “Significa usare il Pnrr come elemento di compensazione perché noi avremo filiere nelle quali le transizioni genereranno almeno nella prima fase una riduzione dei posti di lavoro, se pensiamo alla transizione ecologica, al passaggio all’elettrico nell’automotive o se pensiamo anche all’impatto in alcuni settori del digitale. Questo oggettivamente creerà l’esigenza di interventi, che sono in parte riconducibili agli ammortizzatori sociali ma in parte no. E quindi c’è bisogno anche di politiche industriali che in qualche modo compensino questo aspetto perché banalmente ci dobbiamo preoccupare del fatto che da un lato queste transizioni genereranno una riduzione di occupazione e dall’altro che gli investimenti contenuti nel Pnrr in qualche modo facciano crescere alcune filiere”.

Rispetto al mercato del lavoro, quel che preoccupa non è solo il problema dei lavoratori che rischiano di restare senza lavoro ma è anche il problema dei lavori che rischiano di restare senza lavoratori. Che cosa non sta funzionando nel cosiddetto “mismatching” tra domanda e offerta? “La risposta è tanto semplice quanto complessa: occorrere investire di più sulle politiche attive e sui percorsi di formazione, migliorando anche l’interlocuzione tra i sistemi di formazione e il mondo delle imprese. La nostra riforma sugli ammortizzatori sociali terrà conto anche di questo assetto”. E in che modo? “Il modo è questo: la cassa integrazione e la Naspi non devono essere considerati come periodi morti. Cioè non devono essere periodi nei quali si percepisce un sussidio senza provare a cambiare il proprio profilo professionale. Nel primo caso magari lo si può fare accompagnando i processi di ristrutturazione (se l’impresa affronta la transizione il personale deve in qualche modo usare quel tempo per riprofilarsi). Nel secondo caso lo si può fare lavorando su ipotesi diciamo di connessione tra utilizzo della Naspi e accesso a voucher formativi. Nel caso della cassa integrazione, poi, è molto importante anche che si incominci a concepire il fatto che in grandi imprese dove c’è una ristrutturazione che vedrà una diminuzione della forza lavoro si crei un vero e proprio zainetto del lavoratore che consenta in qualche modo di trasferire quella dote che sarebbe spesa in termini di cassa integrazione nell’impresa che ti assume: se non uso quelle 52 settimane quei soldi li posso usare come decontribuzione”.

Ministro: ma in concreto, cos’è che non ha funzionato in questi anni nelle politiche attive? E cosa si può fare per migliorare un sistema che non funziona? “Occorre farlo senza ideologismi, potenziando i terminali territoriali. Il problema è che i centri per l’impiego funzionano forse nelle regioni che ne hanno meno bisogno, mentre invece in quelle dove ci sarebbe bisogno di una più forte e intensa attività siamo all’anno zero. L’Italia ha impegnate nei centri per l’impiego 10 mila persone, la Germania 100 mila”. Possiamo considerare esaurita l’esperienza dei navigator? “I navigator, giovani molto qualificati che hanno superato una selezione,  sono stati a mio avviso usati come una specie di foglia di fico. Servivano cioè a coprire un equivoco, e cioè che il reddito di cittadinanza fosse uno strumento per le politiche attive del lavoro. In verità dovremmo avere dei centri per l’impiego che si rivolgano a tutti e che siano in grado di fare il bilancio di competenza e orientare quella parte di percettori di reddito di cittadinanza che possono essere occupabili. In ogni caso, sì: l’esperienza dei navigator alla fine dell’anno si andrà a esaurire”. 

Il segretario del Pd, Enrico Letta, rispetto allo sblocco dei licenziamenti non ha escluso che il Pd possa proporre qualche correttivo. “Francamente non ho avuto un confronto in questi giorni con il partito su questo tema, quindi non so se c’era un’elaborazione più avanzata. Quello che penso io è che, se partiamo dai casi di cui stavamo parlando, il vero punto fondamentale è come condizionare di più i grandi soggetti sovranazionali nei processi di delocalizzazione. Da un lato stiamo spingendo perché a livello europeo si affermi finalmente una normativa sul salario minimo che eviterebbe il dumping salariale che oggi caratterizza molti paesi dell’Unione europea. Ma dall’altro penso debbano essere introdotte una serie di condizionalità legate anche agli aiuti e agli incentivi, anche a quelli che verranno dal Pnrr, che leghino in modo più strutturale per un periodo di tempo le imprese al territorio: tu prendi quegli incentivi e ti impegni a non delocalizzare per un certo periodo, dando garanzie sulla permanenza sul territorio”. E’ un suo obiettivo? “Lo è. Ed è una questione della quale intendo parlare anche con Giorgetti perché penso che la mole di risorse che arriverà dal Pnrr sia così importante che oggi si deve anche esigere qualche garanzia in più rispetto al passato. Anche perché c’è quel tema di cui parlavo prima, cioè non c’è solo la questione di difendere l’occupazione. C’è anche il problema di trattenere quanto più possibile le risorse del Pnrr nella dimensione nazionale, anche per mantenere una natura industriale del nostro paese. Naturalmente, prima di far svenire il vostro Luciano Capone, il tutto restando all’interno del quadro di una normativa europea, senza nessuna pulsione protezionistica”. 
A proposito di obiettivi futuri: in che modo questo governo può correggere il reddito di cittadinanza? “Secondo me ci sono tre punti da considerare e da cui partire. Primo: rendere più semplice l’accesso e l’utilizzo dei cosiddetti Puc, cioè quei piani che consentono agli enti pubblici di utilizzare le persone che percepiscono un reddito per attività di pubblica utilità. Secondo: lavorare per creare un sistema più efficiente sulle politiche attive facendo fare un salto di qualità ai centri per l’impiego. Terzo: lavorare sull’istruzione di base e sulla formazione, anche triangolando con le imprese. Il reddito di cittadinanza va cambiato, non abolito. Non mi sembra che ci siano persone che con il reddito di cittadinanza stanno sul divano. Il punto è spacciare una perfettibile misura contro la povertà per quello che non è: un veicolo per trovare lavoro”. 

Ci sta dicendo, dunque, che dopo il cashback, dopo il cambio di Arcuri, dopo il cambio di Parisi, dopo la prescrizione ci sarà discontinuità anche sul reddito di cittadinanza? “Non vedo solo discontinuità. Non vedo discontinuità nelle politiche. Sia sul tema della gestione sanitaria della pandemia sia sul tema delle politiche di sostegno a favore dei lavoratori”. Ci dica la verità: non si governa così male con la Lega. “Onestamente non ho mai pensato che nella compagine di governo ci sarebbero stati dei grandi problemi anche perché siamo in uno stato in cui l’emergenza pesa ancora molto. Certo, ogni volta che si esce dall’emergenza e si guarda un attimo a un contesto più ampio e a una prospettiva temporale più lunga, il tema emerge. E il fatto che Salvini si trovi a gestire una contraddizione evidente, europeista in Italia e orbaniano in Europa, è lì a testimoniarci che sotto la cenere c’è un fuoco pericoloso stimolato dalla crescita della Meloni”. 

Il voto del Consiglio dei ministri sulla prescrizione, però, è lì a segnalarci la chiusura di un cerchio: i partiti populisti, dopo aver votato la fine della prescrizione, hanno votato una sostanziale revisione della legge approvata da loro, appena tre anni fa. Possiamo dire che il rapporto con la giustizia da parte di M5s e Lega è lì a testimoniare l’incompatibilità del populismo con il principio di realtà? “Assolutamente. Io penso che abbiano pesato due fattori: uno è sicuramente l’aver superato la fase dei popcorn, perché la scelta di costruire un’interlocuzione con il Movimento 5 stelle ha modificato il Movimento 5 stelle. Le ingiustificate aggressioni interne ed esterne a Zingaretti e Bettini non tengono conto di questo risultato. Il secondo punto è che la pandemia ha ridefinito un’agenda non favorevole al populismo perché il populismo vive di una rappresentazione alterata della realtà. La pandemia invece ha proposto la realtà in tutta la sua durezza. Cioè: tu puoi inventare capri espiatori, nemici quando non ne hai di percepibili e diretti, ma quando il vero nemico comune diventa il virus, tutti i fantasmi che evochi crollano. E da questo punto di vista, sì: anche una politica giustizialista in questa fase trova molta meno ragion d’essere. La nuova fase dei populisti però non è interessante solo per osservare l’evoluzione di quei partiti. E’ interessante anche per osservare l’evoluzione dei partiti così detti populisti. Oggi possiamo dircelo: esiste il populismo dei populisti ed esiste il populismo degli anti populisti”. 

La fine della rendita anti populista è o non è un tema anche per il Pd? “Lo è certamente. Perché è chiaro che, se Salvini va al governo e non è più il lupo nero, questo implica il fatto che un partito riformista non può limitarsi a dire occhio al lupo nero per dire chi è”. Si riferisce anche al Pd? “Certo. Io credo però che le agorà che Letta ha lanciato possano essere una grande occasione, perché noi abbiamo sciolto molti nodi, ma non quello che secondo me in questo momento assume una dimensione sempre più rilevante: quella del posizionamento sulle questioni economiche e sociali. In questo momento non basta più mettere insieme liberisti e socialisti in nome dell’anti populismo. Occorre fare qualcosa di più, trovare una sintesi, per dire chi siamo e per far capire chi rappresentiamo. Vale anche per la vocazione maggioritaria”.

In che senso? “Nel senso che oggi vocazione maggioritaria significa una cosa precisa. Significa saper prendere i voti nei contesti dove i voti non li prendi. Penso alle qualifiche professionali meno elevate, cioè a quelle persone che lavorano con le mani. Penso ai poveri e a tutte le persone che non abitano nei grandi centri urbani. Penso soprattutto ai giovani. Vocazione maggioritaria non vuol dire inseguire i moderati, i riformisti o i progressisti, che mi sembrano concetti esclusivamente politologici, significa parlare a chi oggi non si parla”. Si parla di agenda del Pd. Ma Orlando direbbe che l’agenda Draghi è l’agenda del Pd? “Rovescio la questione. Non è che c’è un’agenda scritta che noi dobbiamo eseguire. C’è una contesa politica nella quale noi dobbiamo svolgere il nostro ruolo. E non credo che Draghi veda negativamente o sia ostile al fatto che il Pd svolga un’iniziativa politica che contribuisca alla sua azione. Il punto, per essere chiari, non è se l’agenda Draghi sia l’agenda del Pd. Il punto è come il Pd è in grado di dettare l’agenda a questo governo”.

A proposito di discontinuità ce n’è una che importante che riguarda la giustizia. Che significato ha per l’Italia essere passati nel giro di pochi anni dalla foto di Salvini e Bonafede che all’aeroporto attendono un po’ sciacallescamente Cesare Battisti alla foto di Draghi e Cartabia al carcere di Santa Maria Capua Vetere? “Le carceri sono la vera prova del nove del garantismo. E in questo Draghi mi ha colpito in modo particolarmente positivo quando in un Consiglio dei ministri, rispondendo a un mio intervento, ha detto che non ci si può occupare di riforma penale senza parlare dell’esecuzione della pena. Il punto è chiaro: i diritti non vengono meno se si è riconosciuti colpevoli. Viene meno soltanto l’interesse elettorale. Quindi c’è un garantismo molto peloso che si ferma al momento della condanna, sperando di non arrivarci mai e dopo da per perso chi viene condannato. Io penso che invece i diritti fondamentali non si estinguono mai in un sistema di democrazia liberale. E la foto di Cartabia e Draghi al carcere di Santa Maria Capua Vetere è una foto che riconcilia con il garantismo”.

Emanuele Fiano, esponente del Pd, in un’intervista al Messaggero, ha detto che “il garantismo deve definire il futuro campo complessivo del centrosinistra”. Orlando condivide? “Capisco il ragionamento ma francamente avrei difficoltà a definire un quadro di questo tipo sulla base di un termine i cui contorni sono molto indefiniti. Quindi se dovessi scegliere una categoria caratterizzante non sceglierei quella del garantismo. Mi porrei piuttosto il problema, diciamo, di prendere sul serio la nostra Costituzione e la Carta europea dei diritti dell’uomo. Non mi affiderei a  un aggettiv, ma  proverei a partire dai fondamentali. Però, sì: direi che come criterio per il delimitare il futuro campo complessivo del centrosinistra non derogherei a questi due punti. Rispetto della Costituzione, non solo formale, e rispetto della Carta europea dei diritti dell’uomo”. Diciamo al ministro Orlando che su questa strada gli alleati del M5s hanno ancora molto da lavorare ma improvvisamente il tempo finisce. Orlando sorride. Se ne riparlerà.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.