scazzottate a destra

La zuffa tra Salvini e Meloni intorno alla Rai

Valerio Valentini

La leader di FdI invoca l'intervento di Mattarella: "Epurati perché unico partito d'opposizione". Il salviniano Morelli: "Impallinare Giampaolo Rossi". Pd e M5s erano in ansia sui vertici di Viale Mazzini, ma la guerra perenne a destra ha portato i due leader sovranisti a ostacolarsi a vicenda. La spunta il leghista, e Giorgia ordina la rappresaglia in Calabria e in Lombardia

A guardarla con gli occhi di Roberto Calderoli, la faccenda è quasi banale. “Il punto è che FdI non può pretendere la presidenza del Copasir in quota opposizione e la rappresentanza in  cda Rai in quota centrodestra”. Solo che al gran manovratore della Lega, che così catechizzava i colleghi senatori, Giorgia Meloni risponde ribaltando il ragionamento: “Veniamo epurati proprio in quanto unico partito di opposizione. Intervenga Mattarella”. Sofismi in entrambi i casi. Perché poi, a ben vedere, la questione è tutta politica. Ed è una questione, quella che riguarda il conflitto sulla Rai, che si consuma tutto nella perenne zuffa tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni. I quali, tutti affannati a mettersi i bastoni tra le ruote tra loro, hanno finito col non cogliere l’occasione che il centrosinistra, nel suo perenne zelo autolesionista, aveva in effetti offerto su un piatto d’argento. “Perché se si fanno bene i conti, capiscono che possono anche strappare un terzo membro del cda”, sbuffava mercoledì pomeriggio Michele Anzaldi, deputato di Iv che dei contorcimenti della politica intorno al cavallo morente di Viale Mazzini è tra i più esperti.

 

Perché in effetti Francesca Bria, la candidata che il Pd ha deciso di sostenere, era guardata con sospetto da una minoranza non così risicata dei dem, che magari le avrebbe preferito Stefano Menichini: e bastava farsi un giro in Transatlantico, nei giorni scorsi, per imbattersi in descrizioni cospirazioniste che volevano la 43enne presidente del Fondo innovazione di Cdp al soldo del controspionaggio russo. Per non dire, poi, delle convulsioni grilline al Senato, dove la nomina di Alessandro Di Majo alla fine passava con soli 78 voti. Colpa, è vero, di un caso di omonimia che gli ha fatto perdere, nello spoglio, una buona decina di schede; ma se c’è chi ha votato Ettore Licheri o Stefano Patuanelli, lo si deve al caos scatenatosi nel corpaccione del grillismo a Palazzo Madama. Perché i membri a cinque stelle in Vigilanza Rai, dopo molto confabulare, avevano optato per Antonio Palma, presidente dell’Istituto poligrafico e Zecca dello stato. Poi però Giuseppe Conte aveva imposto il suo veto, e tutto era andato in fumo.

 

Insomma, lo spazio per il blitz c’era. Ma le truppe di Salvini e Meloni erano troppo occupate a guardarsi in cagnesco l’un latra, per accorgersene. Al punto che anche i renziani di Palazzo Madama, fiutando puzza di imboscata, s’erano fatti sotto ai colleghi del Carroccio: “Facciamo qualcosa?”. E invece niente, quelli s’erano chiusi a testuggine, perché Alessandro Morelli, viceministro dei Trasporti ma plenipotenziario salviniano in fatto di telecomunicazioni e dintorni, aveva dato l’ordine categorico: impallinare Giampaolo Rossi, membro uscente del cda Rai in quota FdI. E allora il capogruppo Davide Faraone invitata i suoi senatori di Iv a rompere le righe: “Non ci hanno coinvolto in nulla e abbiamo appreso dei loro nomi solo dalle agenzie. Liberi  di non votare o di votare bianca”. Risultato: Rossi otteneva i soli 20 voti di FdI, mentre il leghista Igor De Biasio si garantiva la riconferma contando sui voti del Carroccio e dei colleghi forzisti. Che già avevano intanto stretto l’accordo per procedere di lì a qualche ora a promuovere, nell’urna di Montecitorio, Simona Agnes, candidata benedetta da Gianni Letta.

 

“E’ perché ormai lo scopo di Lega e FI è di fare blocco contro di noi”, si lamentano dalle parti di FdI, lamentando una sorta di conventio ad excludendum che riguarda un po’ tutto il gioco delle nomine. Così la Meloni, di buon mattino, mobilita le truppe: “Dobbiamo farci sentire”. Ed ecco una conferenza stampa coi capigruppo e con Ignazio La Russa che schiumano rabbia e aprono il fuoco: “Ora come minimo dovrebbero darci la presidenza della commissione Vigilanza, guidata dal forzista Barachini”, dice. “Se poi qualcuno vuole far saltare in aria il centrodestra, lo dica apertamente”. Nel frattempo, però, è scattata la rappresaglia. “Come mai in Calabria si punta su un ticket che ci taglia fuori?”, lamentano i meloniani. Con Roberto Occhiuto, candidato presidente azzurro che corre insieme al vice designato, il leghista Nino Spirlì, che però fa sfoggio di tranquillità: “Abbiamo davanti a noi una prospettiva di successo tale che nessun esponente della coalizione può ragionevolmente pensare ad alternative”, ci dice. E forse una dinamica simile è avvenuta in Lombardia. Dove Daniela Santanchè ha dato fondo a tutte le sue energie per rimettere in discussione, nel giro di poche ore, degli accordi sulle amministrative che sembravano già chiusi, con l’obiettivo di portare al tavolo nazionale anche controversie su comuni da diecimila abitanti. Una guerriglia che ha portato alla controritorsione della Lega, che a quel punto ha deciso di far tremare la terra sotto i piedi anche dei reggenti dei pochi avamposti meloniani in terra insubre. Come Emanuele Antonelli, il sindaco uscente di Busto Arsizio, tra i più popolosi comuni di Varese, che s’è visto costretto a chiamare in prima persona la Meloni, per chiederle  di porre fine alle ostilità. Ma nella guerra a bassa intensità a destra, la tregua può essere solo armata. 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.