Il nemico è il virus, non le chiusure

Claudio Cerasa

Per salvare i ristoratori dal partito unico degli sciacalli serve un piano con nuove regole per tornare a sognare

Il grande spazio dedicato negli ultimi giorni da molti quotidiani e molti talk-show alle proteste di alcuni ristoratori andate in scena in forme non sempre pacifiche in alcune piazze d’Italia offre l’occasione per riflettere intorno a un tema che si trova a metà strada tra lo sciacallaggio politico e l’incapacità di diversi mezzi di informazione di considerare come delle notizie da raccontare anche le notizie non del tutto negative.

  

Lo sciacallaggio è quello praticato dal partito unico dei nuovi pappalardi d’Italia che da mesi, con il contributo coerente di Vittorio Sgarbi, il patrocinio implicito di Matteo Salvini, il supporto speciale dei follower di Gianluigi Paragone e il sostegno mediatico di diversi  talk-show di Mediaset, tenta di dimostrare che il vero nemico da combattere non sia il virus ma le misure poste dai governi per contenere il virus.

 

Lo sciacallaggio però non è solo quello praticato da chi si dimentica di dire che le regole si rispettano anche quando queste sono imperfette ma è in una certa misura anche quello praticato da chi si dimentica di dire che le immagini degli scontri con la polizia andate in onda negli ultimi giorni non sono quelle giuste per rappresentare in modo veritiero una categoria in difficoltà come quella dei ristoratori. Una categoria che come altre ha subìto in modo devastante l’impatto della pandemia ma che come altre ha capito perfettamente quello che i finti amici dei ristoratori fanno finta di non capire: per quanto possano essere pesanti, le chiusure servono semplicemente a limitare la diffusione dei contagi e la limitazione della diffusione dei contagi è l’unica possibilità che hanno le economie per provare a tornare alla normalità in attesa dei vaccini di massa.

 

I ristoratori, come molte altre categorie, questo lo sanno. Sanno che in pandemia non esistono risposte semplici a problemi complessi. Sanno, al contrario dei critici d’arte che si improvvisano macro  economisti e virologi à la carte, che lo stato qualcosa ha fatto, concedendo crediti di imposta per gli affitti dei locali, sospendendo il pagamento dei mutui non residenziali, riducendo il costo degli oneri di sistema in bolletta, restituendo quote del fatturato perso l’anno precedente, mettendo sulle spalle dello stato il pagamento della cassa integrazione, erogando nel 2020 come contributi a fondo perduto circa 9,4 miliardi alle imprese e ai titolari di partita Iva ai quali si andranno ad aggiungere altri 13 miliardi che arriveranno agli stessi soggetti nel mese di aprile. Sanno questo e sanno che quel che si può realisticamente pensare di ottenere oggi non è riaprire violando le regole (#ioapro) ma è chiedere allo stato di offrire qualcosa di simile a un piano vaccinale per le riaperture.

  

Un piano che non si limiti alla semplice richiesta di avere ancora pazienza (a proposito di pazienza, chissà fino a quando il ministero dell’Interno potrà tollerare che vi siano sindacati della polizia che rispetto a coloro che hanno malmenato la polizia sostengono che “di fronte al protrarsi di uno stato di cose che schiaccia la cittadinanza sotto al peso di sacrifici insostenibili è inevitabile che riprenda la sequela di proteste”). Un piano che offra più concretamente a chi ha subìto più degli altri i danni della pandemia la possibilità non di neutralizzare la tragedia che si sta vivendo ma la possibilità di riorganizzarsi, di prepararsi e di costruire un nuovo futuro.

  

Per costruire un nuovo futuro servono vaccini ma serve anche un piano, soprattutto in vista dell’estate, per consentire di riaprire a chi rispetta le regole e per evitare di chiudere gli esercizi commerciali solo perché lo stato non è in grado di far rispettare le regole.

 

L’immagine migliore per immortalare l’Italia che soffre non è quella di chi va in piazza dietro ai nuovi pifferai magici. E’ quella che in silenzio, con contegno, disciplina e responsabilità, rispetta le norme aspettando che vi sia un governo che sappia sfoderare non solo regole ma anche un po’ di immaginazione.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.