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L’agenda che serve al Pd per essere un’alternativa credibile ai populismi

Claudio Cerasa

Il manifesto di Bettini, l’accordo con Renzi, la riscoperta di una certa cultura maggioritaria per dribblare ogni subalternità al grillismo. È ora di decidere che fare da grandi

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Il discusso manifesto politico firmato da Goffredo Bettini, pubblicato la scorsa settimana sul Foglio, ha prodotto un notevole dibattito all’interno del Partito democratico e ha messo quello che è secondo i sondaggi il secondo partito più importante del paese di fronte a un bivio cruciale: crescere scommettendo sulla vocazione maggioritaria o crescere scommettendo sull’algebra politica?

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Il discusso manifesto politico firmato da Goffredo Bettini, pubblicato la scorsa settimana sul Foglio, ha prodotto un notevole dibattito all’interno del Partito democratico e ha messo quello che è secondo i sondaggi il secondo partito più importante del paese di fronte a un bivio cruciale: crescere scommettendo sulla vocazione maggioritaria o crescere scommettendo sull’algebra politica?

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Il ragionamento di Bettini, che resta uno dei consiglieri più importanti del segretario del Pd, ha fatto discutere perché ha presentato in modo nudo e crudo quella che è l’alternativa naturale a un Pd non ancora a suo agio nell’esercitare il ruolo di big tent e quell’alternativa è stata riassunta così da Bettini: per poter imprimere una svolta al governo, per non farsi schiacciare sul grillismo e per avere un domani qualche speranza magari di vincere persino le elezioni, il Pd oggi, non avendo la forza di coltivare una sana vocazione maggioritaria, ha il dovere di considerare il progetto politico di Matteo Renzi non come un progetto politico da combattere ma come un progetto politico da sostenere.

 

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Un brillante volto del Partito democratico, un tempo di fede renziana oggi di fede zingarettiana, ha riconosciuto, in una chiacchierata via whatsapp con chi scrive, che, per quanto non condivisibile, il manifesto di Bettini ha il merito di aver chiarito la direzione in cui rischia di finire un Pd a vocazione minoritaria e ha il merito di ricordare un concetto ovvio: in prospettiva, un partito del 18-20 per cento che coltiva l’orticello di sinistra, lasciando definitivamente ad altri la rappresentanza dei temi liberali e riformisti, rischia di essere non tanto una roba vecchia ma una roba poco utile

   

Anche perché da un lato gli altri non sono i Popolari degli anni Novanta, che comunque erano eredi di una solida tradizione politica, ma sono un accampamento rissoso di politici che la pensano più o meno allo stesso modo ma non riescono neppure a prendersi un caffè insieme. E dall’altro lato, rinunciando a rappresentare qualcosa di diverso dal campo progressista, un’operazione del genere rischierebbe di portare il Pd italiano su una strada non troppo diversa dal Partito socialista francese. E non essendoci alcun Macron e alcuna vera destra antisovranista il giochino rischierebbe di aiutare solo il fronte dei nazi-pop (nazionalisti-populisti).

 

Il ragionamento del nostro amico democratico ha una sua logica ma non tiene conto di due variabili non secondarie che riguardano da un lato un tema che ha a che fare con il presente (la vita del governo) e dall’altro un tema che ha a che fare con il futuro (il destino delle forze così dette populiste).

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Sul primo tema, la linea di Bettini è difficilmente contestabile e il Pd di Nicola Zingaretti se ne dovrebbe forse fare una ragione: trasformare il partito di Renzi nel motorino del governo non è una minaccia per il Pd ma è una grande chance per rafforzare la maggioranza. All’interno del governo, il Pd, ormai da mesi, a volte in modo troppo accondiscendente, è il partito che ha assunto il ruolo di fratello maggiore del M5s e cerca ogni giorno di guidare il M5s verso una rotta che spesso coincide con una direzione opposta a quella che il movimento aveva imboccato all’inizio della sua storia.

 

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Per questioni di equilibri, al momento il Pd ha un ruolo che somiglia più a una cerniera che a un motore, ma il Pd sa perfettamente che per il governo è urgente il passaggio dalla fase del fare ciò che è sufficiente per avere un senso a quella del fare ciò che è necessario per dare un futuro al paese; e a quel passaggio risulterà difficile arrivare senza che il Pd deleghi al partito di Renzi il ruolo del frangiflutti su una serie di temi sui quali il Pd non può permettersi di provocare troppo il M5s.

  

Tre su tutti: una giustizia meno ostaggio del partito della gogna, un’agenda del lavoro meno subalterna all’agenda della Cgil, una cultura della concorrenza meno ostaggio dell’immobilismo modello grillino. La capacità del governo di affrontare con intelligenza la fase tre della pandemia, la convivenza con l’ondata di ritorno, e le possibilità dell’Italia di sperare in una qualche forma di rimbalzo, passano da un patto esplicito tra Nicola Zingaretti e Matteo Renzi e su questo punto Goffredo Bettini ha perfettamente ragione.

 

Per quanto riguarda il secondo punto, invece, lo schema a tre per il futuro della coalizione antisalviniana, l’auspicio di Bettini, delegare a un grande centro moderato la raccolta del consenso a cui il Pd non riesce ad arrivare, può essere messo in discussione solo a condizione che il Pd riesca a fare quello che fino a oggi ha faticato a fare: rispolverare un pizzico di cultura maggioritaria, Veltroni docet, riappropriandosi della questione settentrionale, mostrando una strategia di lungo periodo sul tema dell’immigrazione, imponendo un’agenda sviluppista sulla crescita, intestandosi la guida del governo, non mostrando subalternità al grillismo e provando a trasformare nuovamente il Pd nella grande tenda della cultura riformista italiana, facendo coesistere sotto lo stesso tetto, e senza trattini, i moderati e i progressisti italiani.

 

Nicola Zingaretti, segretario del Pd, il nostro caro sleepy Zinga, venerdì scorso ha affermato di non essere d’accordo con il manifesto di Bettini, che a sua volta rispondeva a un altro manifesto politico alternativo pubblicato sempre sul Foglio due giorni prima a firma di Lorenzo Guerini, e ha ricordato che la vocazione maggioritaria, dal suo punto di vista, resta un faro del progetto del Pd. Fino a oggi, il segretario del Pd, anche grazie all’operazione magistrale condotta da Renzi nell’estate di un anno fa, è riuscito nel piccolo miracolo di dare un senso a una maggioranza che sulla carta aveva un senso solo nell’ottica di contenere il salvinismo. Oggi però il Pd di Zingaretti si trova di fronte a un bivio, che Bettini ha ricordato bene su queste pagine: o campare di rendita, giocando la carta dell’uno-due-tre stella, o ridare al Pd il ruolo di partito perno nella lotta contro tutti i populismi d’Italia.

 

Al Pd serve una nuova agenda. E un’agenda competitiva il Pd può darsela solo a condizione di ricordare un dettaglio non insignificante: per provare a diventare una forza egemonica non è sufficiente portare avanti la strategia del non inimicarsi i grillini, ma è necessario provare a portare sotto la propria tenda tutti gli elettori in cerca di un’alternativa credibile sia ai populismi al governo sia a quelli all’opposizione. E’ ora di decidere che fare da grandi.

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