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Mario Draghi, il migliore degli uomini di stato

Giuliano Ferrara

Non un economista, non un messia. Con il “whatever it takes” ha detto “lo stato sono io”. Più politico di così

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L’enigma Draghi è il tema, oltre che il titolo, di un ottimo libro di Marco Cecchini, per Fazi, che ha la fortuna di uscire proprio adesso con il suo carico di informazioni. Il libro è come si dice “ufficioso”, il personaggio ritratto non c’entra con la sua composizione, non è una versione ufficiale, ma si sente la mano dell’insider, e questo è il bello dell’ufficiosità, stai dentro gli enigmi, almeno un po’, invece che fuori. Non è agiografia ma è buona apologia, difesa di un’immagine e delle idee che si porta dietro, senza fede e senza irrisione. Il libro è a doppia lettura. Draghi è un romano cattolico e papista che ha studiato dai gesuiti del Massimo, come Montezemolo e Magalli, con diversi risultati. Si è innamorato dei numeri, l’astrazione più intrisa di materia che ci sia, e ha incontrato un leggendario professore di keynesismo (lo stato deve correggere il mercato, la storia è materia economica), Federico Caffè. Poi in America (east coast) ha incontrato un’altra leggenda, Franco Modigliani, il cui unico neo è che gli fu comminato un premio Nobel, ma per il resto ha saputo adattare keynesismo e teoria classica e si è barcamenato con saggezza tra socialisti e liberisti. 

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L’enigma Draghi è il tema, oltre che il titolo, di un ottimo libro di Marco Cecchini, per Fazi, che ha la fortuna di uscire proprio adesso con il suo carico di informazioni. Il libro è come si dice “ufficioso”, il personaggio ritratto non c’entra con la sua composizione, non è una versione ufficiale, ma si sente la mano dell’insider, e questo è il bello dell’ufficiosità, stai dentro gli enigmi, almeno un po’, invece che fuori. Non è agiografia ma è buona apologia, difesa di un’immagine e delle idee che si porta dietro, senza fede e senza irrisione. Il libro è a doppia lettura. Draghi è un romano cattolico e papista che ha studiato dai gesuiti del Massimo, come Montezemolo e Magalli, con diversi risultati. Si è innamorato dei numeri, l’astrazione più intrisa di materia che ci sia, e ha incontrato un leggendario professore di keynesismo (lo stato deve correggere il mercato, la storia è materia economica), Federico Caffè. Poi in America (east coast) ha incontrato un’altra leggenda, Franco Modigliani, il cui unico neo è che gli fu comminato un premio Nobel, ma per il resto ha saputo adattare keynesismo e teoria classica e si è barcamenato con saggezza tra socialisti e liberisti. 

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Draghi a quel punto era uno studioso e un sapiente della scienza triste, che poi non sempre lo è, di cui si diceva: è un socialista liberale, la stessa definizione di sé che dava Craxi e con lui molti buoni leader della Repubblica (la prima e unica).

   

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A un certo punto si mette a lavorare con Giovanni Goria, un democristiano con venature di tecnocrate che fu ministro del Tesoro e raggiunse poi la presidenza del Consiglio mentre infuriava la tempesta politica tra Craxi e De Mita. Anche con Craxi Draghi lavorò, per un servizio di stato che non è partigiano e non è anonimo. Dal 1991 al 2001 fu direttore generale del ministero del Tesoro, scelto da Carlo Ciampi in una stagione in cui Giuliano Amato fu l’inviato speciale dei partiti nel cielo della governabilità e della crisi da debito. In quei dieci anni fa le privatizzazioni (“un vile affarista” che liquidò l’industria pubblica, secondo il Cossiga dei suoi momenti più sublimi e pazzi, un freddo esecutore dei poteri forti, relatore a Civitavecchia sul Britannia, secondo i QAnon di allora); e fa la disciplina nuova della finanza con la sua legge. Dopo, per tre anni ha il gusto del ritorno al privato, a Goldman Sachs, e chissenefrega dei conflitti di interessi (come sempre sostenuto qui in tanti casi): non importa se è bianco o nero, l’importante è che il gatto prenda il topo. Poi Banca d’Italia dopo Antonio Fazio, gentiluomo serio e sfortunato nelle relazioni personali, fusioni bancarie bestiali e colossali, ristrutturazione dell’agenzia del potere che sa e conosce, infine, come tutti ma proprio tutti sanno, quasi un decennio alla Bce di Francoforte, trasloco alla nuova sede dell’Eurotower, incoronazione finale nel luglio del 2012. Quando tesse la tela e sbuca come un ragno violino e morde il mercato assassino in conferenza stampa: faremo tutto quanto necessario per sostenere l’euro, e credetemi sarà sufficiente (il famoso whatever it takes). Fulminante.

   

    

   

Dunque è la grande carriera di un banchiere centrale (il più bravo del mondo secondo gli anglosassoni, un Dracula secondo i tedeschi prima della loro normalizzazione, “the unitalian” secondo uno che ha capito poco degli italiani). Ma la seconda lettura del “metodo Draghi”, della sua capacità di seduzione e decisione, del modo in cui si arriva a rivoltare come un calzino la Bce e la cultura di governo europea, attraverso un accordo silenzioso con Angela Merkel, dice che Draghi è un italianissimo e talentuoso uomo politico, qualcosa di più di un Grand Commis de l’Etat. Quando ha detto whatever it takes io salvo la moneta e dispongo della capacità di batterla della Banca che presiedo, in sostanza ha detto “lo stato sono io”, che è affermazione, diremmo, eminentemente politica, politica come nessun’altra. I giansenisti, come nota Cecchini, illustrarono il Seicento di una grande cultura ereticale, consideravano irredimibile se non per pura grazia l’umanità, e sfiduciarono le attività dell’uomo, figuriamoci la politica invece i gesuiti, quorum Draghi, si avventuravano nei meandri anche oscuri dell’umanità convinti, da confessori dei re e da saggi realizzatori di storia profana, che della grazia redentrice fa parte a pieno titolo la grazia di Stato.

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Ora questo statista puro ci dice, prima con un articolo sul Financial Times scritto quando eravamo tutti chiusi in casa, tipico esercizio di smart working, che il debito come stock ingombrante c’è e resterà, si ingrosserà, andrà anche gonfiato oltre misura, il che imporrà con sano eclettismo di riconsiderare la visione del debito come mostro divoratore, per passare alla questione di come spendere il debito in modo razionale allo scopo di garantire la crescita. E arrivederci, nonostante tutto, al controllo occhiuto dei conti pubblici, che resta un problema ma non è più il cuore del problema dopo l’ondata travolgente della pandemia e del blocco. Queste cose sopraffine non le può fare un banchiere, sono materia esclusiva della manipolazione politica dei fatti. E’ grottesco come in Draghi si cerchi vuoi un economista vuoi un funzionario dei poteri forti vuoi un messia: è solo, con Merkel e pochi altri, il migliore degli uomini di stato di un universo politico europeo che ha riclassificato tutto, comprese le regole del potere e della disciplina.

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