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Occasioni! Roma può diventare il laboratorio dell’antipopulismo

Claudio Cerasa

La pessima notizia della ricandidatura di Virginia Raggi al Campidoglio è un’ottima notizia per testare la capacità delle altre forze politiche di emanciparsi dalla grammatica grillina. Bastano due parole: efficienza e concorrenza. Chi ci sta?

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La notizia della ricandidatura di Virginia Raggi al comune di Roma è una pessima notizia per chiunque abiti a Roma – l’idea che possa essere rinnovato il mandato del peggior sindaco mai visto sulla faccia della terra è un’idea che probabilmente terrorizza anche i grillini che abitano a Roma – ma è invece un’ottima notizia per chiunque sogni di testare, prima delle prossime politiche, la capacità delle forze politiche antipopuliste di emanciparsi, nelle occasioni che contano, dalla grammatica populista. L’ascesa al potere di Virginia Raggi ha coinciso simbolicamente con la grande illusione che la retorica dell’onestà potesse essere una buona alternativa alla politica della competenza. E in un certo senso si può dire che la presenza di Virginia Raggi a Roma è stata come un passaggio traumatico ma fondamentale per mostrare in purezza il fallimento del modello di governo grillino (secondo un recente sondaggio del Sole 24 Ore, Raggi è al penultimo posto come gradimento tra i sindaci italiani). Ma senza voler essere troppo paradossali si può anche dire che, come sostiene il finanziere Davide Serra, la notizia della ricandidatura di Raggi è anche una buona notizia perché ci permetterà di testare non solo se i romani vogliono una città pulita e che funziona o una discarica a cielo aperto tra le rovine ma anche perché la sfida alla Raggi dovrà costringere tutti i partiti alternativi al M5s a mettere in campo il meglio del proprio lessico antipopulista.

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La notizia della ricandidatura di Virginia Raggi al comune di Roma è una pessima notizia per chiunque abiti a Roma – l’idea che possa essere rinnovato il mandato del peggior sindaco mai visto sulla faccia della terra è un’idea che probabilmente terrorizza anche i grillini che abitano a Roma – ma è invece un’ottima notizia per chiunque sogni di testare, prima delle prossime politiche, la capacità delle forze politiche antipopuliste di emanciparsi, nelle occasioni che contano, dalla grammatica populista. L’ascesa al potere di Virginia Raggi ha coinciso simbolicamente con la grande illusione che la retorica dell’onestà potesse essere una buona alternativa alla politica della competenza. E in un certo senso si può dire che la presenza di Virginia Raggi a Roma è stata come un passaggio traumatico ma fondamentale per mostrare in purezza il fallimento del modello di governo grillino (secondo un recente sondaggio del Sole 24 Ore, Raggi è al penultimo posto come gradimento tra i sindaci italiani). Ma senza voler essere troppo paradossali si può anche dire che, come sostiene il finanziere Davide Serra, la notizia della ricandidatura di Raggi è anche una buona notizia perché ci permetterà di testare non solo se i romani vogliono una città pulita e che funziona o una discarica a cielo aperto tra le rovine ma anche perché la sfida alla Raggi dovrà costringere tutti i partiti alternativi al M5s a mettere in campo il meglio del proprio lessico antipopulista.

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Roma è stata in questi anni un laboratorio del populismo grillino (il vento è cambiato, in effetti, ed è il fetore che arriva dagli splendidi cassonetti della città) ma può diventare nei prossimi mesi un laboratorio dell’antipopulismo se il centrodestra e il centrosinistra capiranno alcune delle lezioni impartite in questi mesi dal non governo della città. E le lezioni da capire – a parte il degrado, a parte la mortificazione di una città, a parte le olimpiadi rifiutate, a parte il disastro dello stadio, a parte l’immobilismo trasformato nell’unica forma di onestà, a parte l’incapacità di attrarre grandi capitali dal mondo – sono fondamentalmente due e sono lezioni che hanno una valenza più nazionale che locale.

 

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La prima lezione ha a che fare con il trasporto pubblico ed è una lezione che ci mostra quello che il sindaco Raggi si rifiuta di vedere da tempo: solo una maggiore concorrenza può aiutare l’Italia ad avere un sistema dei trasporti più competitivo (nell’ultimo bilancio Atac, i costi del personale rappresentano il 57 per cento dei costi totali rispetto al 45 per cento del 2014, ove si dimostra che senza concorrenza le aziende di trasporto pubblico tendono a trasformarsi in un servizio dedicato più alla clientela che all’utenza di una città) e solo trasformando le liberalizzazioni in una virtù e non in un vizio della politica si riuscirà ad avere un sistema del trasporto pubblico più efficiente e più trasparente, capace, come ricorda spesso su queste colonne Andrea Giuricin, di portare benefici a tutti i cittadini sia come consumatori sia come contribuenti. Raggi, in questi anni, ha fatto il contrario e il risultato è sotto gli occhi di tutti: un’azienda in perdita, un trasporto pubblico disastroso, metropolitane chiuse per anni, scale mobili che inghiottiscono i passeggeri e un debito fuori controllo.

 

La seconda lezione ha a che fare con i rifiuti e ci mostra invece un problema di tipo diverso che è quello che si trova alla base del peggior cialtronismo populista: l’utopia sciocca e irresponsabile dei rifiuti zero. Il grillismo, come è noto, prevede che i rifiuti debbano essere portati gradualmente verso quota zero attraverso una non chiara attività di “riduzione, di riutilizzo e di riciclo” (con Ignazio Marino la quota di rifiuti differenziati, a Roma, pesava per il 43 per cento sul totale, dopo due anni di Raggi pesa ancora per il 43 per cento) e trincerandosi dietro questo obiettivo del tutto irrealistico come già raccontato dal Foglio (in Germania e in Austria, i paesi europei più efficienti nella gestione dei rifiuti, la quantità di rifiuti riciclabili è il 50 per cento, il resto va tutto in inceneritori e in recupero energetico) si è scelto di dire di no all’unico progetto capace di risolvere in modo definitivo il dramma della monnezza: la costruzione di un termovalorizzatore. Raggi ha scelto di dire di no a qualsiasi progetto che potesse andare in questa direzione (una politica così fallimentare da aver portato il sindaco di Roma a fare il contrario di quanto promesso in campagna elettorale, ovvero chiedere al Consiglio comunale l’autorizzazione di una nuova discarica, proposta bocciata clamorosamente dai consiglieri grillini del Campidoglio) e ha accettato di non muovere un dito per evitare che i cittadini romani si ritrovassero in una condizione diversa rispetto a quella attuale (i romani pagano 670 milioni di euro all’anno di Tari, di questi, 350 milioni se ne vanno in personale e 200 milioni se ne vanno per allontanare i rifiuti e portarli negli impianti che la regione non ha). Il risultato è quello che molte volte ha raccontato Chicco Testa sulle nostre colonne: una città sommersa dall’immondizia che per smaltire i suoi rifiuti deve chiedere una mano a quelle città che hanno la stessa tecnologia che la furia benecomunista rifiuta in modo ideologico. Più i candidati di centrodestra e di centrosinistra avranno il profilo dei candidati schierati in campo solo per non spaventare l’elettore grillino (niente male immaginare, come ha fatto Carlo Calenda, il sovrintendente Carlo Fuortes come candidato antipopulista per ridare smalto alla città) più Roma sarà destinata a vivere altri cinque anni di incubo e più ai romani sarà tolta una possibilità che in fondo meritano dopo cinque anni di incubo raggiano: trasformare la capitale d’Italia non nel laboratorio del populismo ma nel laboratorio dell’antipopulismo. Bastano due parole: efficienza e concorrenza. Chi ci sta?

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