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Lo sciatto gratta e vinci per il Campidoglio

Giuliano Ferrara

Quello che colpisce di più è la paurosa incapacità dell’opposizione a costituire, in tanti anni, una base programmatica e tecnica di contrasto al fallimento Raggi

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Di Virginia Raggi come sindaco di Roma e come figura pubblica qui si è detto da tempo, e non c’è niente da aggiungere. La sfacciataggine di una ricandidatura dall’alto di un clamoroso fallimento si commenta da sé. Colpisce invece la paurosa incapacità dell’opposizione a costituire, in tanti anni, una base tecnica e programmatica di contrasto a questo fallimento, un sistema di alleanze sociali e culturali, un senso comune del riscatto e della svolta, e una leadership in grado di parlare ai cittadini, di suscitare un minimo di fiducia o anche soltanto di interesse focalizzati su un nome, su una rosa di nomi certificati e chiaramente impegnati a una successione politica seria e ordinata.

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Di Virginia Raggi come sindaco di Roma e come figura pubblica qui si è detto da tempo, e non c’è niente da aggiungere. La sfacciataggine di una ricandidatura dall’alto di un clamoroso fallimento si commenta da sé. Colpisce invece la paurosa incapacità dell’opposizione a costituire, in tanti anni, una base tecnica e programmatica di contrasto a questo fallimento, un sistema di alleanze sociali e culturali, un senso comune del riscatto e della svolta, e una leadership in grado di parlare ai cittadini, di suscitare un minimo di fiducia o anche soltanto di interesse focalizzati su un nome, su una rosa di nomi certificati e chiaramente impegnati a una successione politica seria e ordinata.

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Per l’area “no Raggi” tutto era cominciato con una fase di dissoluzione, divisione, sconcertante leggerezza. Avevano promosso a sindaco un medico su cui era ovvio avere dubbi, un tipo qualunque che mostrava comportamenti degni di una satira di Giovenale o di un epigramma di Marziale, addirittura, insomma una non-personalità politica scelta soltanto per esigenze di equilibrio, di facciata, con un lavorio politico dietro le quinte a sorreggere o boicottare un campione modestissimo della società civile che risultò indiscernibile e alla fine di penosa inutilità.

 

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Al tutto del disastro, e come fattore concorrente del disastro, si annunciò a un convegno del Pd la famosa bufala di Mafia Capitale, poi divampata in arresti-spettacolo e in oscena mediatizzazione, una campagna alla quale ancora oggi un Calenda, persona in genere informata e accorta, si piega in reverente encomio. Quella tragicommedia servì a portare la Raggi, improvvisata figura di coniglio estratto da un misterioso cilindro in mezzo a strepiti isterici d’ogni tipo, oltre il 60 per cento e i grillini, di lì a poco, a conquistare la maggioranza relativa nazionale, con lo zampino di giudici disattenti al cuore di giustizia delle cose e di un coro indecente di assalti in nome del mitico rimbombo della parola “onestà”.

 

Nessuno ha riflettuto su questo, nessuno ha guardato al generale fenomeno di liquefazione di una tradizione e di un bagaglio politico che pure a Roma era notevole, e dopo la sconfitta della ragione e della verità è ripreso pigramente il solito tran tran. Chi aveva ingaggiato tardivamente battaglia per difendere un indifendibile “modello Marino” (dal nome dell’ex sindaco troncato da inettitudine e pettegolezzo e grancassa mediatico-giudiziaria) prese la fuga, si è “dato”, come si dice vernacolarmente a Roma. Brave persone e eletti più o meno isolati hanno tentato di farsi largo e di creare esperienza, ma senza una guida e senza una prospettiva. Il risultato è l’incredibile ricandidatura e il riavvio della giostra dei controcandidati scelti fior da fiore, all’ultimo momento, a mezzo interviste e spifferi, tra generici papabili, un attore, un sovrintendente, un industriale, chissà chi altro, todos caballeros ma nessuno che abbia responsabilmente lavorato, con costanza e la dovuta radicalità, per arginare il peggio della giunta Raggi e preparare il meglio di una alternativa, guadagnandosi una fetta almeno di consenso cittadino.

 

Così le elezioni non esprimono il senso di un percorso di battaglia nelle istituzioni e nella realtà sociale di una città, mancano completamente del senso dell’identificazione popolare, della squadra, dello staff, del leader, diventano una lotteria di nomi e di interessi generici che viene bandita ogni volta, per un rapido gratta e vinci. In Francia il ruolo di sindaco è la sacra premessa di ogni capacità di governo, ed è rarissimo sfuggire alla regola del radicamento come è avvenuto per un fenomeno eccezionale quale è stato Macron, da noi il sindaco, ma non di Le Havre, anche di Roma, che se vogliamo conta di più e non solo in senso simbolico, è una scelta occasionale, non testata, priva di fascino e di gusto dell’avventura politica, robetta senza importanza. Roma in sindachese è fatta così, è così diversa dal Borgomastro di Milano, dal sindaco delle Due Torri o di Firenze o perfino di Napoli o Palermo, è l’occupazione del Campidoglio da parte della classe dirigente più sciatta e incurante del paese. Poi ci lamentiamo che la città sia disfunzionale, caciarona, sporca e bucherellata. Vorrei vedere.

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