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nel segreto dell'ursula

Forza Italia conta (e si conta). Nella sfida sulle commissioni, le larghe intese hanno funzionato

Valerio Valentini

Da Marattin a D'Alfonso, da Melilli alla Rotta. Sono i tanti i nuovi presidenti eletti grazie al soccorso azzurro. I parlamentari del Cav danno una mano, pensando ai nuovi equilibri di settembre

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Roma. Sarà pur vero che talvolta le alleanze nascono come sommatoria di debolezze, più che come unione di geometriche potenze. E in effetti, con lucida umiltà, Bruno Astorre, uno che al Senato tiene i conti del pallottoliere per Dario Franceschini, la giornata di mercoledì la sintetizza così: “Questa è una maggioranza numericamente solidissima, e politicamente fragilissima”. E infatti, due ore dopo l’approvazione dello scostamento di bilancio varato con dei 170 voti – nove in più della soglia di galleggiamento, almeno tre in più delle più rosee previsioni – è partito il rodeo sul rinnovo delle presidenze di commissioni. Ma siccome anche nella congiunzione di debolezze si saldano talvolta i binari teoricamente paralleli di maggioranza e opposizione, proprio laddove i giallorossi hanno traballato di più, Forza Italia è venuta in soccorso. Magari sperando in future ricompense, magari sperimentando una convergenza che poi, chissà, a settembre potrebbe trasformarsi in qualcosa di più stabile.

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Roma. Sarà pur vero che talvolta le alleanze nascono come sommatoria di debolezze, più che come unione di geometriche potenze. E in effetti, con lucida umiltà, Bruno Astorre, uno che al Senato tiene i conti del pallottoliere per Dario Franceschini, la giornata di mercoledì la sintetizza così: “Questa è una maggioranza numericamente solidissima, e politicamente fragilissima”. E infatti, due ore dopo l’approvazione dello scostamento di bilancio varato con dei 170 voti – nove in più della soglia di galleggiamento, almeno tre in più delle più rosee previsioni – è partito il rodeo sul rinnovo delle presidenze di commissioni. Ma siccome anche nella congiunzione di debolezze si saldano talvolta i binari teoricamente paralleli di maggioranza e opposizione, proprio laddove i giallorossi hanno traballato di più, Forza Italia è venuta in soccorso. Magari sperando in future ricompense, magari sperimentando una convergenza che poi, chissà, a settembre potrebbe trasformarsi in qualcosa di più stabile.

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Come che sia, Luciano D’Alfonso deve senz’altro ringraziare tutti e quattro i senatori azzurri della sua commissione, se alla fine l’ha spuntata. Magari sono stati pure superflui, ai fini del conteggio: ma fino all’ultimo momento la reazione del M5s, di fronte a quella candidatura considerata “impresentabile” ancora alla vigilia, non era prevedibile. E non a caso, un minuto dopo la sua elezione a presidente della Finanze, i consiglieri regionali abruzzesi, che per anni lo hanno contestato quand’era governatore e che già all’epoca della nascita del governo avevano impedito la sua nomina a sottosegretario con un comunicato al veleno, hanno coordinato una campagna social con hashtag eloquente: #notinmyname.

 

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D’altronde l’opportunità del soccorso azzurro proprio in questo si rivela evidente: nel tentativo di mitigare le intemperanze del grillismo, i puntigli ideologici dell’ortodossia a cinque stelle. Vale per il Mes, ovviamente, e vale anche per la corsa alle poltrone. E così anche Dario Stefano, ben sapendo che andando a sostituire il pasdaràn euroscettico Ettore Licheri alla presidenza della commissione per le Politiche Ue rischiava di finire sotto il tiro incrociato dei cecchini grillini, s’è premurato di assicurarsi il sostegno di un paio di forzisti. Figurarsi allora cos’hanno dovuto fare i renziani, per evitare le imboscate del M5s. Annamaria Parente di voti in più rispetto a quanto preventivato ne ha avuti almeno cinque, e chi ha assistito allo spoglio, l’altra sera, confessa che sì, “è tutta roba di Forza Italia”.

 

Così com’è accaduto – passando alla Camera – a Luigi Marattin, che per uno strano paradosso di larghe intese è passato dall’essere il candidato più in bilico a quello col margine di sicurezza più elevato: otto voti di scarto, e almeno quattro portatigli in dote dai forzisti della commissione Finanze, che hanno così neutralizzato anche un paio di dissidenti grillini. Fabio Melilli, invece, la sua elezione a capo della Bilancio se l’è dovuta sudare fino al ballottaggio. Colpa, anche qui, dei bisticci a cinque stelle: perché quando, su volere del viceministro Laura Castelli, s’è stabilito che Giuseppe Buompane dovesse cedere il posto di vicepresidente a Giorgio Lovecchio, nella pattuglia balcanizzata dei grillini di commissione è scattata la rappresaglia, e nel liberi tutti che ne è seguito due o tre voti a cinque stelle sono finiti al leghista Claudio Borghi. Al che il buon Bruno Tabacci, col tono dell’anziano che rimbrotta, ha spiegato ai pargoli indisciplinati che “il vostro è un gioco perverso, ma se Borghi resta presidente della Bilancio si rischia la crisi di governo”. E chissà se alla fine il rimprovero è servito: ma di certo Melilli, dem di rito franceschiniano, in quei momenti di fibrillazione s’è visto avvicinare da un paio di deputati di Fi che gli dicevano di stare tranquillo, che alla bisogna loro si sarebbero fatti trovare pronti.

 

Assai più liscia è andata invece ad Alessia Rotta, che nella commissione Ambiente c’è entrata per la prima volta mercoledì sera per diventarne presidente pochi minuti dopo (col prevedibile entusiasmo della sua compagna di partito Chiara Braga, che in quella carica ci sperava). E siccome l’operazione, costruita all’ultimo minuto, andava resa sicura, ecco che le diplomazie si sono attivate. E insomma Alessandro Benvenuto, presidente uscente leghista che alla riconferma ci puntava, s’è ritrovato con quattro voti in meno del previsto, gli stessi che guarda caso hanno garantito alla veronese del Pd di evitare il secondo turno. Con un sovrappiù di sorpresa, peraltro: perché, facendo e rifacendo i conti, alla fine nel Carroccio si sono convinti che a dare una mano alla Rotta è stata, nientemeno, che Mariastella Gelmini.

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Quanto alla Giustizia, le convergenze tra il Pd, Iv e FI in funzione anti-manettara, sono state perfino troppo spudorate. Al punto che, alla Camera, Maria Elena Boschi ha dovuto far dimettere il suo b, portato in trionfo dai deputati berlusconiani come eroe del garantismo. E’ durato poco, ma è stato comunque bellissimo.

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