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La bolla dell’anti populismo

Processo alla classe dirigente

Marco Bentivogli

Media, politici, imprese, associazioni. Dentro una gigantesca “bolla filtro”, certe della bontà delle loro idee, le élite di ogni colore muoiono soffocate dall’autoreferenzialità. Da dove può nascere una nuova stagione giocata contro i nuovi impresari della paura

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Da adolescente presi la tessera del partito radicale. Era il tempo del transnazionale, della lotta alla partitocrazia, della battaglia per i diritti, la giustizia giusta; il tempo di Pannella, dei grandi ideali, cambiare il mondo, e feci arrabbiare molto mio padre (“Ilona Staller in Parlamento? Che vergogna!”). Poi mi iscrissi a Rifondazione (e a Scienze politiche). Era il tempo di Bertinotti, il pacifismo, il no global, i diritti sul lavoro. Grandi visioni e grandi passioni. Si faceva la colla nei secchi di vernice e ci si chiamava compagni. E feci arrabbiare molto mio padre (“questi centri sociali, le vetrine spaccate, che vergogna!”). Poi, dopo molti anni, mi iscrissi al Pd. Mi ero imborghesito, mi accusarono. Ed era vero. Era il tempo di Veltroni, la canzone di Fossati, alzati che si sta alzando, i democratici all’americana, le primarie, il merito, un nuovo linguaggio. C’erano ancora idee e passione e mio padre si arrabbiò un po’ meno (“tu e questa politica, finisci l’università!”). Da un bel po’ mi iscrivo solo a Netflix. Leggo cronache e discussione e non trovo una briciola di visione, una mollica, un ideale, un sospiro, niente. Vi vedo giocare col potere, coi social, con le balle, con le frasi tutte uguali, vi vedo fare e disfare governi con la destra e con la sinistra senza mai sentire – ma forse sono distratto io – un pensiero alto sul futuro, una idea di società. Passate di qua e passate di là solo per un minuscolo gioco personale. Vedo buoni a nulla prender tutto e non riuscire a dire niente. Ma la cosa più brutta è che ora che saremmo d’accordo, mio padre non c’è più”.

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Da adolescente presi la tessera del partito radicale. Era il tempo del transnazionale, della lotta alla partitocrazia, della battaglia per i diritti, la giustizia giusta; il tempo di Pannella, dei grandi ideali, cambiare il mondo, e feci arrabbiare molto mio padre (“Ilona Staller in Parlamento? Che vergogna!”). Poi mi iscrissi a Rifondazione (e a Scienze politiche). Era il tempo di Bertinotti, il pacifismo, il no global, i diritti sul lavoro. Grandi visioni e grandi passioni. Si faceva la colla nei secchi di vernice e ci si chiamava compagni. E feci arrabbiare molto mio padre (“questi centri sociali, le vetrine spaccate, che vergogna!”). Poi, dopo molti anni, mi iscrissi al Pd. Mi ero imborghesito, mi accusarono. Ed era vero. Era il tempo di Veltroni, la canzone di Fossati, alzati che si sta alzando, i democratici all’americana, le primarie, il merito, un nuovo linguaggio. C’erano ancora idee e passione e mio padre si arrabbiò un po’ meno (“tu e questa politica, finisci l’università!”). Da un bel po’ mi iscrivo solo a Netflix. Leggo cronache e discussione e non trovo una briciola di visione, una mollica, un ideale, un sospiro, niente. Vi vedo giocare col potere, coi social, con le balle, con le frasi tutte uguali, vi vedo fare e disfare governi con la destra e con la sinistra senza mai sentire – ma forse sono distratto io – un pensiero alto sul futuro, una idea di società. Passate di qua e passate di là solo per un minuscolo gioco personale. Vedo buoni a nulla prender tutto e non riuscire a dire niente. Ma la cosa più brutta è che ora che saremmo d’accordo, mio padre non c’è più”.

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Antonio Menna

    

Le parole dell’amico Antonio Menna riassumono lo stato d’animo di molti di noi, divisi tra i tanti rassegnati e i pochi che resistono, inducono a una riflessione sulle classi dirigenti ai tempi dei social. Lo scrivo anche perché tutte le volte che capita una grande emergenza sento che la concretezza delle cose che si possono fare sono poche, sento un richiamo a cui non posso rispondere. Sentirsi utile, dare senso alle proprie azioni nei momenti più difficili dovrebbe essere un richiamo che ognuno dovrebbe sentire per se stesso e poi per il proprio paese. Per questo, sembrerà un po’ singolare, ma a marzo mi sono iscritto al gruppo della protezione civile di Ancona. C’è un tema enorme che riguarda la necessità che l’impegno sociale non sia solo “mestiere” perché poi diventa routine. E poi c’è un tema che riguarda quanto il gruppo dirigente italiano stimoli attivismo o rassegnazione indignata. E scrivo perché sono anni che lavoriamo sull’innovazione del lavoro e delle produzioni e ho avuto la fortuna di vedere con i miei occhi cose impensabili, poi pensate e poi realizzate. E poi fermarti su altrettanti progetti decisivi di cui vedi lontana la realizzazione, perché non vedi la politica, la rispetti, ma la senti lontana, distratta, delegittimata. Ci si accontenta che non si facciano troppi danni ma la realtà ci pone di fronte sfide enormi che meriterebbero i migliori gruppi dirigenti della nostra storia. La retorica per cui è tutto “epocale”, “straordinario” lascia sul terreno cose del tutto ordinarie, improvvisate. Come recuperare uno spazio di maggiore ambizione della politica, in cui il narcisismo lasci spazio al riconoscimento di errori, sottovalutazioni, capacità di adeguare le scelte fatte. Il discorso pubblico e la pubblicistica del nostro paese da tempo riconducono con sempre maggiore insistenza i problemi del nostro paese alla scarsa qualità del nostro Gruppo Dirigente diffuso. Per cui non semplicemente riferita a “i politici”.

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Ovunque, negli ambiti economici, sociali, politici, accademici, intellettuali, tutti denunciano deficit di caratura. Svolte possibili


     

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Ovunque, negli ambiti economici, sociali, politici, accademici, intellettuali, tutti denunciano un deficit di caratatura. Non vi è un’analisi altrettanto rigorosa delle vere cause e ancor meno un’indicazione delle virtù, delle capacità, delle esperienze, della formazione e dei percorsi che fanno oggi “gruppo dirigente”. In realtà, il consenso gastrico o comunque “stanco e pigro” livella proprio la necessità di qualità. Competenti (veri o autodichiarati), incompetenti, esperti e inesperti, sembrano tutti uguali agli occhi di un popolo poco esigente su chi li rappresenta. Come spezzare il circuito vizioso della bassa e poco esigente domanda di rappresentanza, con l’autoriproduzione della mediocrazia che ha bisogno di persone poco consapevoli e informate, che si ri-conoscono in gruppi dirigenti inadeguati? Questo mondo produce, task force, think tank, più l’ultima versione dinamica: il think action tank. Persone anche di grande valore mischiate a finti competenti lottizzati. Mi sono occupato per anni di lavoro, industria, innovazione. Abbiamo fatto cose magnifiche, ma non esistono strategie forti senza la politica, senza quella con la P maiuscola, che ascolta, capisce, pensa e decide. In una società frammentata, in cui gli individui si sono trovati soli e deboli davanti agli effetti della crisi economica, non esistono scorciatoie. La formazione e il ricambio dei gruppi dirigenti è un tema da affrontare seriamente. Non reggono né le facili ricette della “rottamazione” che abbiamo visto all’opera in passato, né la spinta verso il sogno perpetuo – ma mai concreto – di un cambiamento radicale: entrambi gli approcci sfociano nella fragile personalizzazione della politica e nel populismo, che sia orientato a destra o derivato da sinistra. Anche la logica dell’attacco al nemico, allo straniero in patria, all’Europa e all’euro cavalca la preoccupazione e la paura senza però offrire vie di fuga concrete ai reali problemi che le famiglie si trovano ad affrontare ogni giorno. Stiamo andando incontro a una rivoluzione. Non solo perché si farà carta straccia dei vecchi paradigmi interpretativi, ma anche perché il coraggio di costruire la partitura della nuova era sul foglio bianco sarà centrale in tutti gli ambiti della vita. La tendenza attuale è quella di ridurre il dibattito agli aspetti emergenziali post-pandemia o, nel migliore dei casi, a questioni tecnologiche ed economiche della nuova fase. La vera sfida invece, è portare il cambiamento su un terreno culturale, etico e di senso. Per effetto della rivoluzione digitale, la creazione di comunità prescinde dallo spazio fisico e dalla prossimità territoriale. La cultura si deterritorializza. La condivisione di credenze, valori, esperienze, tradizioni non avviene più all’interno del ghetto della comunità organica chiusa, ma si apre all’influenza e alla contaminazione dello spazio aperto dalla comunicazione globale. Un leader che non si pone la questione dell’urgenza di riorganizzare la comunità e di come farlo presto davvero non si stupisca se non riuscirà ad uscire dal teatrino quotidiano. Serve il coraggio di convincere, a mettersi in gioco insieme

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Il ritorno alla disintermediazione?

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C’è un aspetto che accomuna questi approcci, tutti destinati a un rapido fallimento: la diffusa tendenza alla disintermediazione. Il compito di dare contenuto e forma alla rabbia e alla disperazione delle persone deve tornare a essere tipico dei corpi intermedi “non reazionari”. I sindacati che non hanno ben chiaro questo concetto favoriscono inevitabilmente i populismi, e meglio farebbero ad abdicare a un ruolo straordinario che non sono più in grado di svolgere. Segnalo un bellissimo contributo di Giuseppe De Rita che se da un lato afferma che la “disintermediazione produce lo svuotamento della dimensione intermedia della dialettica sociopolitica e la conseguente emarginazione dei soggetti collettivi”, dall’altro segnala che non si ritorna all’intermediazione con gli stessi corpi sociali, anche perché “è sempre più difficile il lavoro di rappresentanza delle identità, perché i meccanismi identitari oggi sono mimetici, localistici e spesso confinanti con le appartenenze etniche”. Per la verifica dello stato di salute dei soggetti collettivi non vale l’autocertificazione. Per questo la misurazione della reale rappresentanza è un elemento imprescindibile. Ma non basta, la salute e il ruolo dei corpi intermedi (non solo il sindacato) si indebolisce quando ci si concentra su una legittimazione dall’alto. La vecchia “relazionite”, malattia post-concertativa che misurava il proprio ruolo nella qualità delle relazioni e nel numero degli incontri istituzionali, rischia non solo di essere sempre più un boomerang, ma di rimanere schiacciata quando rientra nella propaganda governativa a cui poi non seguono risultati concreti per le persone. Un conto è la valorizzazione e il riconoscimento di ruolo da parte delle istituzioni. Altra cosa è esaurire il campo da gioco nel numero di incontri e interlocuzioni, e soprattutto in una legittimazione governativa che ricorda i sistemi cinesi o sovietici. L’autonomia collettiva è uno spazio libero di legittimazione dal basso e dalla propria, autonoma, capacità di stare in campo.

   

Che fine hanno fatto gli intellettuali?

Il mondo intellettuale ha da almeno 30 anni abbandonato ogni riflessione sul lavoro e i lavoratori, come dice Axel Honnet, da quando hanno capito che la fabbrica non è il luogo della rivoluzione e la classe operaia, il soggetto rivoluzionario. Poi l’aver tardivamente capito che non è più neanche una “classe” e che spesso vota a destra ha portato quasi ad un disprezzo, che li ha portati a concentrarsi su quel ceto medio che dovrebbe essere riflessivo per cristallizzarne i ragionamenti su dogmi. Gli intellettuali che amavano il proprio paese, spingevano il protagonismo civile, incalzavano le nuove generazioni a star lontani dalle banalità, pensiamo a Pasolini. Come dice il bravissimo Claudio Scamardella, sono persone che al massimo come orizzonte vedono il loro ricco quartiere o le località più chic rigorosamente lontane dai problemi, con l’egoismo di chi cura il proprio buon retiro da dove pontificare su tutto ma da cui starne rigorosamente alla larga. Che lettura può dare del mondo e che spinta al cambiamento può dare un ceto intellettuale con un orizzonte cosi? Per questo si possono permettere il lusso esotico di essere sempre più ideologici, fanatici e di indottrinare qualche giovane sprovveduto che gli fa da pappagallo su Keynes, modelli di sviluppo, a cui hanno insegnato che evocare i temi è sufficiente per fare identità: “Lo senti ha parlato di lotta alle disuguaglianze, di spesa pubblica e di decarbonizzazione, è di sinistra”. Insomma basta evocare parole chiave anche se sono appese al nulla per ricreare le tribù degli indignati e addirittura le appartenenze.

     

Integratori di energie e lievito di speranza

Abbiamo appena celebrato il tasso di natalità più basso dal 1861, in cui i pensionati superano i lavoratori attivi, in cui aumentano gli italiani che lasciano il paese e diminuiscono i migranti che arrivano. Un default demografico che anticipa quello economico, industriale, civile. Occorre prima di tutto diffondere la consapevolezza di quello che sta accadendo. Smetterla di offrire fatalismo e ineluttabilità del destino. Restituire alle persone l’idea fondamentale che il futuro è conseguenza in larga parte del presente, di ciò che facciamo, di quali risorse ed energie mettiamo in campo. In secondo luogo, è imprescindibile abbandonare la nostra storica banchina di Paese “timoroso ed esitante”, riscoprendo il coraggio e la radicalità della sfida. Solo adottando lo spirito di frontiera si può ritrovare l’iniziativa e ripartire dalla progettazione sociale, economica, industriale, civica.

   

E’ così che si alimenterà un nuovo protagonismo: recuperando una visione del futuro da restituire soprattutto alle nuove generazioni. Pensieri lunghi, quindi, che attivino impegno e mobilitazione, che permettano al Paese di tornare “dentro la storia”. Il ricatto del breve termine di cui soffre la politica in cerca del consenso, il fatalismo che valorizza la pigrizia e mortifica l’impegno ci impediscono di riscoprire il nostro essere comunità attiva nel presente e di capire appieno il futuro, leggerne le tendenze, costruirlo. 

    

Abbiamo necessità di costruire, con decisione e speranza, una visione corale di futuro, da opporre a chi fa leva su una prospettiva angosciante per consolidare la sua presa su un presente dominato dalla paura. Da anni la destra è ripiegata nella sua versione infantile e la sinistra ha perso qualsiasi visione, del lavoro, del progresso, dell’uomo, per abbandonarsi al revival. Un atteggiamento che ha ben sintetizzato Mauro Magatti: “Non sapendo più pensare il futuro, non riusciamo più a sprigionare quelle energie vitali che fanno lo sviluppo”. Ci chiediamo, spesso con un ormai tipico atteggiamento lamentoso, per quale motivo l’Italia è un Paese nel quale l’impegno, il coraggio e la tenacia hanno meno valore che altrove. Il motivo è che anche a livello educativo questi valori sono stati demonizzati, facendo passare il messaggio che non si vince lottando ma con le lotterie della vita e la fortuna. Ivi incluse le fortune relazionali, la benevolenza di qualche potente o un accesso alle “reti” giuste. La “relazionite” invece dell’impegno e, perché no, del sacrificio, è una malattia che degrada il merito all’irrilevanza. E’ un impianto culturale che per alimentarsi ha bisogno come il pane di una narrazione pessimista o fatalista, ben condita da vuoti di memoria rispetto al nostro passato. L’ottimismo ingenuo non aiuta, ma l’ottimismo razionale interrompe il ripiegamento “furbesco” in atto nel Paese. Non si tratta di valorizzare il ruolo benefico delle illusioni, ma è del tutto evidente che forzare la nostra mente a vedere il bicchiere mezzo pieno, ad avere una visione positiva, innesca un effetto a catena virtuoso. L’esaltazione delle cattive notizie, invece, non riempie un bicchiere mezzo vuoto né fa diventare positivi gli accadimenti. Pensare il futuro significa rischiare, battere territori sconosciuti, sfidare fobie e ansie, puntare sulle proprie carte con coraggio e intraprendenza. E’ la sola terapia per un paese come il nostro, malato di paura e minacciato da visioni apocalittiche. Innanzitutto dobbiamo pensare, e sentire, di potercela fare davvero. Bisogna fare sul serio…

   

Come ricorda Papa Francesco, la nazione non è un museo, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da “mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose”. Ma soprattutto, aggiunge il Santo Padre, è inutile cercare soluzioni in “condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative”.

   

Partiamo da un assunto di ormai lampante evidenza: le sconfitte fanno bene se sono occasione di rigenerazione, se, insomma, avviano un percorso di riprogettazione. Purtroppo, anche il dibattito successivo alle elezioni politiche italiane del 2018 non ha tenuto conto del profondo sommovimento che da anni agita il Paese. La crisi attraversata dalla sinistra italiana non è riconducibile solo alle responsabilità del gruppo dirigente e, più in particolare, alla leadership. Si continua a parlare di nomi mentre quella che abbiamo di fronte è una crisi strutturale che affonda le sue radici nei mutamenti della società e nello sgretolamento delle sue basi etiche condivise, anche – ma non solo – in relazione alla crisi economica. La sinistra, in tutte le sue versioni ispirate a un socialismo temperato o alla socialdemocrazia, si è dimostrata sorda a un disagio sociale vario e multiforme, un disagio che è stato raccolto dai populisti, abili a occupare gli spazi lasciati sguarniti. Ma si è dimostrata anche afona rispetto alle prospettive di un orizzonte realmente progressista e riformista. Parlando di “reazione populista in tutto il mondo occidentale”, Edward Luce scrive che “esistono due modi per decifrare questo impulso. Il primo è quello di liquidarlo come l’ultima reazione dei fanatici […]. L’altro modo è ascoltare quello che dicono. Alcune ansie sono culturali, altre economiche […]. Se scarichiamo metà della società perché pensiamo che sia ignobile, non perdiamo soltanto la possibilità che ci ascolti. Mettiamo anche in pericolo la democrazia liberale. Una cosa è convincere noi stessi che conosciamo il futuro, un’altra è ignorare quello che ci accade sotto gli occhi”. E, infatti, la crisi della sinistra non riguarda solo l’Italia. E’ in difficoltà il Parti Socialiste francese, drasticamente ridimensionato alle presidenziali del 2017, e anche la Spd tedesca, che ha avuto però la forza, coinvolgendo i suoi oltre quattrocentomila iscritti, di dare via libera al governo di Grosse Koalition con Angela Merkel; Corbyn ha perso in un inseguimento nazionalista incapace di qualsiasi respiro europeo. Sanders almeno ha combattuto, ma su di lui ha prevalso Joe Biden.

    

Una parte della sinistra vive per pigrizia di revival e finisce per essere indistinguibile dai populisti. Come sempre, la via più comoda consiste nell’allontanare da se stessi le responsabilità, rifugiandosi ancora una volta nei vecchi slogan (che per l’eterogenesi dei fini hanno premiato proprio chi confeziona slogan semplificatori): è colpa della società o magari di un fantomatico modello di sviluppo della globalizzazione. La fuga dalle responsabilità, l’incapacità dei gruppi dirigenti di assegnare alla propria azione un senso, la loro miopia, che ha associato qualsiasi visione alla gestione esclusiva del quotidiano, hanno contribuito ad alimentare la crisi di senso e di civismo di cui soffre il nostro Paese. Senso e civismo: le vere armi che possiamo brandire contro il deterioramento della democrazia. Ora, in questo clima, drammaticamente non riusciamo più a vedere i semi generativi di cui, al contrario, siamo ricchissimi: imprese, persone, associazioni, legami e relazioni che hanno caratteristiche uniche al mondo. Siamo tanto affezionati a un passato che non passa perché siamo nostalgici delle sue contraddizioni, che non valgono più a leggere la durezza inclemente crisi di identità della sinistra. Negare il bisogno di sicurezza degli italiani, ad esempio, non riuscendo a coglierne il significato – insicurezza più percepita che reale, ma ugualmente profonda – è servito proprio ad alimentare la paura. Un errore elettoralmente funzionale al fronte dei populisti e dei sovranisti. Sarebbe forse stato sufficiente imparare dalla nostra storia recente per intravedere i segnali e imboccare per tempo una via diversa. Ma bisogna ripartire dalle giuste riflessioni, anche nell’approccio alla tecnologia, per non reiterare gli sbagli.

    

Organizzazioni aperte e contendibili contro le scuola dell’obbedienza

La debolezza dei corpi sociali è spesso frutto di due malattie: la prima è la chiusura autocelebrativa, in ambienti in cui il discorso e l’iniziativa politica sono troppo chiusi nella bolla delle dinamiche interne. Quando avviene anche i contenuti si degradano a copioni e il confronto e il consenso a logiche di fedeltà, le uniche sostenibili da gruppi dirigenti deboli. I momenti di confronto si trasformano in celebrazioni di risultati che si autoascrivono alla propria leadership, che a raccontarli ti prenderebbero per un seguace di una scuola coranica fondamentalista. La seconda è la logica della fedeltà, la lealtà è troppo impegnativa per capi fragili in cui strutture monocratiche o oligarchiche che selezionano necessariamente i gruppi dirigenti sulla base della conservazione degli status.

   

La mediocrazia si è affermata proporzionalmente alla caduta di qualità dei gruppi dirigenti e delle élite. La debolezza progressiva di quest’ultime si sorregge su un “consenso stantio” che alterna reazioni rancorose a un sottofondo costante di delega in bianco.

   

La dialettica sui contenuti è stata distrutta su due fronti: la personalizzazione del conflitto o la demonizzazione della dialettica stessa. La comunicazione è anch’essa condivisione. Affinché sia autentica e produca confronto e sintesi ha bisogno di due condizioni: che si possa sempre dire ciò che realmente ci sta a cuore, senza infingimenti, con rispetto ma con chiarezza e in un clima di ascolto; che la comprensione delle posizioni porti a ridiscutere o rafforzare, sulla base di argomentazioni valide, le posizioni di partenza. La dialettica vera, una volta si chiamava battaglia politica, ha forgiato i migliori gruppi dirigenti. La debolezza di quelli attuali ha necessità di conformismi e richiami alla fedeltà (spesso spacciata per lealtà). Albert Einstein riteneva le riunioni tra persone che la pensano tutte allo stesso modo siano delle perdite di tempo: vengono valorizzati aspetti e posture maggiormente adatti ai soprammobili che a gruppi dirigenti degni di questo nome. Ognuno di noi dovrebbe pensare, ogni volta che sceglie o prende una decisione, quanto abbia privilegiato il coraggio, l’impegno, la curiosità, il talento, in antitesi alla cooptazione, in cui a vincere è il conformismo che mortifica e la necessità di difendersi dall’innovazione e dal confronto. E’ molto efficace la descrizione delle tappe attraverso le quali si è instaurata la mediocrazia offerta dal sociologo canadese Alain Deneault. “Non siate né fieri né faceti e nemmeno a vostro agio: rischierete di apparire arroganti. Mitigate la vostra passione, il fervore, perché potrebbe spaventare. Non vi fate venire nessuna buona idea. […] E poi quello sguardo penetrante, che intimidisce, smorzatelo, diluitelo, e rilassate le labbra contratte, mi raccomando riducete il pronome io a poca cosa. […] La principale competenza di un mediocre? Riconoscere un altro mediocre. Insieme organizzeranno scambi di favori per rendere potente un clan destinato a crescere”.

   

Robert Musil diceva: “Se la stupidità non somigliasse così tanto al progresso, al talento, alla speranza o al miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido”. Queste maschere confortano la stabilità di ogni status quo e ne garantiscono la riproduzione. Le ritualità hanno fatto perdere ogni passione e hanno abbassato la soglia di accesso ai mediocri e ai fedeli nella selezione dei gruppi dirigenti. Se vogliamo riaccendere la passione per l’impegno civile, la prima cosa da fare è chiudere le diffusissime scuole dell’obbedienza.

   

E’ noto più o meno a tutti, ormai, che Google, Facebook e altri social network utilizzano gli algoritmi per selezionare i nostri interessi e restituirci informazioni personalizzate in base alle nostre preferenze. Ce ne rendiamo conto quando, ad esempio, effettuiamo una ricerca su un articolo in Internet e immediatamente dopo compaiono annunci relativi a prodotti simili. Gli algoritmi di Google ci propongono ciò che, in base alle informazioni che noi stessi forniamo, ritengono vogliamo trovare. Meno noto è, invece, che questa operazione di estrema personalizzazione, per un verso molto comoda, diventa rischiosa quando inizia a riguardare non già le nostre possibili preferenze di acquisto, ma la qualità e il contenuto delle informazioni di cui necessitiamo per formare un pensiero plurale e, per quanto possibile, oggettivo. Prendiamo Facebook: ogni giorno guardiamo, leggiamo e mettiamo un gran numero di like a post, profili, pagine. La piattaforma lavora, come detto, sui nostri interessi. Ciò che seguiamo, ciò che ci piace rappresenta ciò che siamo e, alla fine, il social network, proprio per questa particolare caratteristica di funzionamento dell’algoritmo, decide cosa farci vedere. In genere, ci mostra ciò che è simile a noi e chi ha idee simili alle nostre. Il resto scompare, senza che ce ne rendiamo conto. A questo fenomeno, del quale è particolarmente difficile acquisire consapevolezza, si dà il nome di filter bubble (tradotto in italiano col più semplice “filtro”), termine coniato da Eli Pariser nel 2011. Pariser mette in guardia: questo mondo virtuale, che si costruisce sulla base delle nostre convinzioni, diventa una bolla che emargina quanto è lontano da noi e ci impedisce di imparare cose nuove, perché ci fa vivere in uno stato di continua “autopropaganda” delle nostre stesse idee. E’ ora più semplice comprendere che la “bolla” può essere utilizzata per orientare le nostre opinioni, quelle politiche in primis, con finalità e modalità molto varie, tutte comunque alimentate dall’enorme quantità di dati che offriamo quotidianamente alla Rete.

   

Ma c’è un altro aspetto interessante. Al di là dell’algoritmo che filtra le informazioni e ci rinchiude nella bolla, noi tendiamo a cercare conferma delle nostre idee e, allo stesso tempo, consenso rispetto a come la pensiamo. E’ una tendenza innata dell’essere umano che, in genere, al dubbio preferisce la certezza, al diverso preferisce il simile e si chiude in una sorta di “camera dell’eco”, all’interno della quale si ripropone la nostra immutabile visione del mondo. Ci convinciamo che nella realtà la maggioranza la pensi esattamente come noi, mentre in effetti quella maggioranza non esiste. Fra le vittime più famose degli effetti di questi fenomeni non possiamo non citare Hillary Clinton. I suoi sostenitori, isolati dai filtri e assordati dall’eco, erano convinti che Trump non avesse alcuna possibilità di vincere. Ma gli elettori di Trump erano fuori dalla bolla e loro, semplicemente, non li vedevano. Sorte simile per i fautori del “Remain” nel referendum sulla Brexit nel Regno Unito. La vicenda Clinton, in particolare, ha dimostrato che questa propensione, indotta o autoindotta, alle false convinzioni non è tipica solo delle persone comuni, ma colpisce pure, e in modo allarmante, le cosiddette élite – la Silicon Valley nel caso della candidata alla presidenza degli Stati Uniti. Dentro la loro “bolla filtro”, certi della bontà delle loro idee, incapaci di vedere e comprendere le dinamiche esterne alla loro stanza del compiacimento, le élite muoiono soffocate dall’autoreferenzialità, allontanandosi sempre di più dalla realtà vera. Deluse e incredule, come lo erano gli elettori della Clinton o i sostenitori del “Remain”, non sanno più reagire, riformarsi, riorganizzarsi.

    

Rompere polarizzazione a autoreferenzialità in Italia

E l’Italia? Non è esente il nostro Paese da questa dinamica di polarizzazione e autoreferenzialità.. Dunque la polarizzazione avrebbe avuto, in questo caso, un ruolo incisivo: “Le opinioni preconcette sono uscite rafforzate dal meccanismo di autoconferma all’interno delle diverse camere dell’eco”. Non sopporto la retorica sul rapporto con la mitica “base” e il “Paese reale”. Ma è logico pensare che la chiave di molte sconfitte nasca dal fatto che questa piccola fetta di mondo non ha idea di come vive il 99 per cento della popolazione. Se, come si diceva una volta, chi vuole cambiare il mondo ha una conoscenza solo turistica di come vive e si guadagna da vivere il resto dell’umanità, non saprà mai conquistare una dimensione popolare. Trasferirà, consapevolmente o meno, l’immagine di chi vuole, di fatto, solo “farsi invidiare”, qualcosa in cui un tempo eccelleva la destra più conservatrice. Se la sinistra non riparte dalle persone e dal loro lavoro, dalle periferie degradate e sovrappopolate, il suo sarà un continuo pontificare con parole sempre più afone. Dove spendi la testa e il cuore, ma anche dove tieni gambe e piedi: è questo che restituisce credibilità. Siamo passati dalla coscienza di classe all’invidia sociale. Contano certo tutte le evoluzioni socio-economiche, ma anche il valore dell’esempio e la capacità di uscire dalla cosiddetta videocracy che ha vinto dagli anni Ottanta del Novecento. I lavoratori vedono chiaramente chi passa davanti alle fabbriche solo in campagna elettorale, e se lo ricordano.

    

Contro gli impresari dalla paura: non gli regaliamo le emozioni

La paura sembra ormai la merce più trattata sul mercato politico ed economico. Un collante che è stato forte ed efficace in ogni epoca, oggi si configura come totalizzante. Negli ultimi anni gli impresari della paura, quelli che ostentano ed enfatizzano posizioni identitarie e difensive e parlano a nome del “popolo”, del “cento per cento degli italiani”, sono passati dal terrorismo islamico ai migranti ai robot in una continua corsa alla diversificazione delle icone terrorizzanti.

Intanto è da notare come in un mondo globalizzato come quello in cui viviamo – immerso in un flusso costante di informazioni, nel quale si è definitivamente spento il motore delle ideologie, in grado per tutto il Novecento di orientare la storia e la parte che in essa recitavano individui e movimenti – le emozioni contano più che in ogni altra epoca storica. Sono le emozioni, assai più che le idee, a rivestire un ruolo fondamentale nella percezione che popoli, nazioni e cittadini hanno di sé e della loro condizione di vita. La sinistra e i moderati hanno regalato l’ascolto, la cura delle emozioni ai sovranisti, ai saltimbanchi, agli illusionisti 2.0.

   

Processo all’informazione italiana

Sentimenti propri dell’intima natura umana, quali speranza, fiducia, umiliazione, rabbia, paura sono oggi stimolati e alimentati in maniera strumentale. E’ scorretto dire che i nuovi media ne sono la causa, ma certamente la possibilità di esprimersi attraverso i social network ha modificato anche i modelli comunicativi della politica, che trova qui una “piazza” costantemente aperta e popolata di soggetti non sempre in grado di distinguere la verità dalla menzogna. Populismo e sovranismo sono in permanente campagna elettorale. Le forze politiche che di queste etichette si fregiano, anche oggi che hanno raggiunto ruoli di governo, veicolano messaggi chiari, semplici, di grande effetto, modellati su stati d’animo funzionali a offrire un’idea di appartenenza che non possiamo non definire quantomeno ingannatrice. Contemporaneamente, a sinistra, la visibilità mediatica sui social e in tv sembra riguardare principalmente il travaglio interno al Partito democratico. Nulla di più lontano dai problemi del Paese reale. Né in questo i media tradizionali sono incolpevoli.

   

Anzi, è proprio dalla loro tribuna che il vento dell’antipolitica ha cominciato a soffiare. La tendenza di certe trasmissioni televisive italiane a trasformarsi in “eventifici” e “personaggifici”, affrontando temi spesso distanti dalla vita delle persone e costruiti senza contraddittorio, ne ha, purtroppo, notevolmente ridotto l’attendibilità. Quanti operatori dei media hanno investito sulla qualità, o, almeno, sulle regole basilari e su un minimo di pluralismo informativo? Servilismi con i governi e conformismi con le opposizioni sono aspetti della stessa malattia. La verità, la capacità di risolvere concretamente i problemi, la buona notizia sono elementi spiazzanti. La politica che getta benzina sul fuoco della paura, invece, fa reach e impressions sui social, e fa salire l’audience in tv. Si tratta di un’enorme voragine culturale che, come detto, non fa leva solo sulle disuguaglianze economiche.

   

Secondo il filosofo coreano Byung-Chul Han, “da un certo livello di produzione, la razionalità – che rappresenta il medium della società disciplinare – si scontra con i propri limiti. Essa è avvertita come costrizione, come impedimento; all’improvviso, diventa rigida e inflessibile. Al suo posto subentra ora l’emotività, che si accompagna al sentimento della libertà, al libero sviluppo della persona. Essere libero significa dare libero sfogo alle emozioni”. Il potere, mutato, usa la nostra presunta libertà e fa in modo che ciascuno vi si sottometta da sé. 

   

Comprendere questo meccanismo aiuta a capire anche perché oggi la concezione mediatica della politica – nel senso esclusivo del presenzialismo, dell’apparenza, dello slogan – ha tale presa emotiva sui cittadini. I contenuti positivi e verificati perdono di credibilità perché l’instillazione continua di messaggi politici assertivi o aggressivi, comunque mirati a stimolare le nostre pulsioni più ancestrali (il timore del diverso e del futuro, l’invidia sociale), induce alla ricerca ossessiva di una verità propria, alternativa a ogni costo, che spesso non corrisponde alla realtà e, di conseguenza, ci impedisce di compiere le giuste scelte programmatiche. Gli impresari della paura sono, però, fragili. L’impatto con il reale svelerà il loro gioco e farà, drammaticamente, crollare le deboli certezze di molti. Bisogna lanciare la sfida, parlare direttamente alle persone, smetterla di spiegare ad un disoccupato come si sta male senza lavoro, fargli intravedere un’iniziativa che generi speranza: incoraggiare e non spaventare, cambiare il mondo ogni giorno un po’.

   

Le virtù dei Gruppi dirigenti

Il Sistema economico politico e sociale è malato di scarsa innovazione, il guaio è che cresce anche un’altra povertà, quella di legami sociali, di fragilità comunitaria. Il paese non cresce, mette in fuga i pochi giovani rimasti. Per riprendere il sentiero dello sviluppo economico e del progresso civile la classe dirigente dovrebbe essere formata e selezionata sulla base del possesso di alcune caratteristiche distintive, che sono quanto di più lontano dall’obbedienza acritica e dalla fedeltà incondizionata.

   

L’esperienza

Aspetto decisivo da non confondere con l’anzianità. Non si può governare un paese senza aver mai avuto esperienze di “gestione”. Sono cose che non si improvvisano. Attenzione a non confondere come unica “esperienza di gestione” l’amministrazione dei comuni. Vi sono mille ambiti anche innovativi che fanno bene alla macchina pubblica e che possono aiutare a rigenerarla. Una persona che non ha mai pagato per se una tassa, per se o per altri, letto un contratto di assunzione, guardato un bilancio, non dico di un’azienda ma almeno del condominio in cui vive, (a no in genere non vivono in condominio), fatto un investimento, da cui dipende la propria condizione. Persone così dal non aver gestito nulla a gestire un paese sono pericolose.

   

Il coraggio

Servono persone capace di forti discontinuità, non sono tali gli spoyls system per piazzare gli amici. Servono persone capaci di sostenere le proprie idee davanti ai fischi, alle incomprensioni, alle contestazioni. Persone capaci di scegliere a partire da loro stessi, determinazioni che possono portare sacrifici, impegno, e difficoltà. Il coraggio è tener duro quando tutto crolla, quando sei solo. Servono persone che in epoca di povertà educativa e generazionale, abbiano l’onestà e il rigore di non dare mai ragione a tutti. E di compere conseguente scelte di equità a prescindere dall’influenza elettorale di una generazione rispetto all’altra. Il paese educa alle due ali della furbizia: la dipendenza e al conformismo, deve riniziare a educare al coraggio, quello di prendere parola anche da soli, anche in ambienti ostili alle proprie idee. Senza coraggio ci sarà sempre un buon motivo per rimandare i conti con la realtà e nel frattempo, ci autoassolveremo dall’aver fermato gli ingranaggi delle cose sbagliate. Tutto ti insegna che il consenso su cose che ritieni profondamente sbagliate, è più comodo e conveniente. Per questo dalle imprese, alle organizzazioni, alla politica, lo scarso dinamismo è garanzia di un livello non sfidante.

   

La solitudine

E’ uno dei momenti irrinunciabili per coltivare la propria libertà interiore. Non intesa come possibilità di fare ciò che si vuole. Ma la capacità che solo la solitudine ci consegna di mettere in trasparenza le catene, le routine, le paure che ci imponiamo da soli e che ci impediscono quando invece è vitale, di cambiare strada. La libertà interiore è quello spazio in noi, da custodire, che ci consente di dare senso e significato alle cose, che ci consente di fare bilanci veri dei nostri progetti e delle nostre relazioni e che ci aiuta a cambiare rotta e ad accettare qualsiasi incomprensione esterna a noi. La libertà interiore spaventa perché porta dentro di sé un grande senso di responsabilità. E’ lo specchio interiore veramente utile, a cui sostituiamo quello esteriore del narcisismo.

   

Laicità

In un momento in cui la Chiesa cerca con forza di non anteporre il corredo dogmatico, ne restano retaggi irrazionali e controfattuali in particolare nella sinistra. Mentre è comprensibile a destra la riedizione strumentale e propagandistica dei “valori tradizionali” utilizzati e traditi al contempo ma utili ai richiami identitari. A sinistra la lontananza di ceto dal paese, produce abbagli di vecchi dogmi ideologici. Solo un piccolo esempio: un riformista sfida il capitalismo, non cerca di imbonirlo né di accontentarlo. L’equivalenza: più spesa pubblica uguale più sinistra è uno dei più grandi imbrogli contro i lavoratori e i pensionati. Ci sono momenti emergenziali in cui le partecipazioni pubbliche transitorie non solo sono inevitabili ma hanno anche un senso. Spiegare che è, per errori inequivocabilmente politici, una cosa di sinistra pagare con i soldi dei contribuenti quello che avrebbe dovuto pagare Arcelor Mittal in Ilva è frutto di incompetenza, ignoranza e malafede. Il rapporto con la verità deve essere almeno una ricerca costante e non la costante e ideologica falsa coscienza della realtà.

   

Riconoscimento della propria parzialità

Per battere la malattia autoimmune dei nostri gruppi dirigenti servono leadership trasformazionali. Persone capaci di riconoscere la propria parzialità e di capire che la trasfromazione, quella vera, quella che batte populismi e mediocrazia si basa sulla restituzione a ciascuno di protagonismo civile. Con la necessità di avere attorno “persone di propria fiducia” ci si circonda di yesman che distruggono aziende, organizzazioni, macchina pubblica. Ci sono stati sindaci di Roma, molto in gamba, il cui risultato è sempre derivato dall’avere i migliori in squadra. Oggi ovunque la costruzione del proprio team è basata su due regole: fedeltà cieca e impossibilità strutturale che facciano ombra al leader. Il risultato è scontato.

    

Meriti e bisogni

I bisogni sociali non possono essere un alibi per livellare il merito l’impegno, il valore delle persone e delle idee. Nel paese dove l’importanza della conoscenza è sostituita da quella delle “conoscenze” si leggono frequentemente appelli contro la meritocrazia. Siamo un paese in cui, nel pubblico come nel privato, l’impegno, la competenza sono spesso mortificati. L’assenza di meritocrazia è una delle maggiori cause di marginalizzazione delle risorse più importanti per il paese: i giovani e le donne. Un paese nemico di ogni valutazione, di ogni verifica, e inizia presto questo tic: che non considera il più grande contributo alla povertà educativa la correlazione inversa tra test invalsi e voti è un paese che non vuole bene ai giovani altrimenti dovrebbe reagire a queste che sono vere ipoteche sul futuro delle generazioni.

    

Credibilità

C’è una quota di sfiducia che è tutta frutto dell’antipolitica. La credibilità è la montagna più alta da scalare, riuscire a far passare che ciò che si fa non lo si fa per se stessi e i propri interessi è frutto – da un lato – dall’inquinamento dialettico della schiuma populista, ma anche da ipocrisie e trasformismi inspiegabili sotto qualsiasi coerenza. Credibilità è anche riconoscere sbagli e fallimenti. Poi c’è un problema che è il margine tra ciò che si dice e ciò che si fa che il digitale mette in trasparenza. Ma c’è un problema più profondo di postura politica che deriva da stili e coerenze di scelte. Mi spiego: non puoi predicare sobrietà e abitarvi lontano. Non puoi predicare “largo ai giovani” e fare di tutto per tenerli lontano dall’impegno a partire dallo spazio che tu stesso devi lasciare. Invecchiare nel sindacato se fa invecchiare il sindacato è un errore che non deve fare nessuno e non deve consentire nessun corpo intermedio. Essere credibili significa avere un buon rapporto di correlazione tra ciò che si pensa, ciò che si dice e ciò che si fa. E questo anche proprio il consenso fanatico e pigro è la condizione più favorevole per non essere mai verificati.

   

Radici e cultura

Non esiste gruppo dirigente degno di questo nome senza cultura, senza radici. Guardate cosa leggono (se lo fanno) e capirete di cosa si nutrono, guardate la bolla delle loro frequentazioni e comprenderete perché scambiano le idee con le opinioni e il pensare con il replicare litanie altrui. Si vede quanto sia vero che i limiti del loro mondo producano limiti del loro lessico e delle capacità di riflessione autentica. L’Europa, l’Italia politica non è nata sotto un cavolo, è diventata nazione grazie all’intreccio di tre culture, quella cattolica democratica popolare, quella socialista riformista, quella liberal democratica. Avere radici da solidità proprio all’innovazione, aiuta a dare senso ai progetti umani.

   

Capaci di visione

L’accorciamento d’orizzonte dei progetti umani e dei loro pensieri nel nostro paese è stato disastroso. Se leggiamo i megatrend su ambiente, demografia, lavoro e digitale vediamo inevitabilmente che le politiche che hanno orizzonti inferiori ai 30 anni sono, non solo inutile, ma spesso dannose. Oggi, la ricerca del consenso a breve, produce politiche a brevissimo, appunto, inutili, costose e dannose. Servono politici che sanno allungare pensieri e orizzonti, che leggano i megatrend dell’umanità e capiscano di dover costruire progetti ambiziosi, non per le ricadute personali ma perché riconducono il proprio contributo ad una fase terminata la quale altre generazioni le porteranno avanti. Prima ci si limitava ad asfaltare le strade, oggi si decide quando pagare le tasse o assumere nella Pa a seconda delle scadenze elettorali.

    

La classe dirigente ai tempi del Covid-19

Ora, con l’accordo sul Recovery fund si aprono spazi per una grande riprogettazione della struttura produttiva del paese. Ci sono enormi disponibilità finanziarie ed è un’opportunità imperdibile per vincere la crisi e affrontare la transizione tecnologica. E’ questo quindi il momento di uno scatto di progettualità, riprendendo le idee migliori del piano Colao per costruire ecosistemi che favoriscano lo sviluppo industriale, vero motore della crescita e del benessere di un paese. Ecco, io mi aspetto che gli ostili al Mes, spieghino come stanno le cose. Che si dica cosa avere un debito pubblico del 164 per cento del Pil, in cui continua ad aumentare il fabbisogno. Un gruppo dirigente che dica sempre da dove arrivano i soldi e chi paga e pagherà. Il Commissario Gentiloni ha, con onestà, detto che i soldi del Recovery Fund arriveranno nella seconda metà del 2021. Manca un anno. E il sogno più bello è che il vero conflitto sociale sia un popolo che riscopre di essere nazione perché capace di ritrovarsi in una base comune di valori a partire da quello di iniziare a essere informati, consapevoli e più esigenti con chi ci rappresenta.

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