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Il manager come trofeo di caccia dei pm, intervista a Vito Gamberale

Carmelo Caruso

Il caso Autostrade, l’inchiesta sull’ad Tomasi, i risvolti d’una malattia italiana tra pregiudizio e protagonismo giudiziario

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Roma. “Che un manager possa essere indagato fa parte del rischio che decide di assumersi. Io sono stato indagato sette volte, prosciolto tutte e sette, e in un caso sono stato anche ‘sequestrato’. E’ stato doloroso. Ma non è questo che oggi mi spaventa”. E allora cosa la spaventa? “Mi preoccupa l’indagine al manager come un trofeo di caccia grossa, la moda del massacro. La vera difficoltà del manager è resistere alle inchieste giudiziarie che vengono sbandierate, all’avviso di garanzia che corrisponde a un avviso di colpa anziché a un percorso di chiarimento e di difesa”. E quando a Vito Gamberale gli viene chiesto non solo dell’impossibilità di fare il manager in una nazione che li detesta, ma che idea abbia sul fascicolo aperto dalla procura di Genova nei confronti di Roberto Tomasi – ad di Autostrade –; ebbene, pensando forse a quanto lui ha dovuto sopportare, “l’ingegnere” risponde così: “Non conosco bene Tomasi, ma lo ritengo un eccellente manager. Da quanto leggo può dimostrare la sua estraneità. Gli rivolgo i miei auguri. Sono sinceri”.

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Roma. “Che un manager possa essere indagato fa parte del rischio che decide di assumersi. Io sono stato indagato sette volte, prosciolto tutte e sette, e in un caso sono stato anche ‘sequestrato’. E’ stato doloroso. Ma non è questo che oggi mi spaventa”. E allora cosa la spaventa? “Mi preoccupa l’indagine al manager come un trofeo di caccia grossa, la moda del massacro. La vera difficoltà del manager è resistere alle inchieste giudiziarie che vengono sbandierate, all’avviso di garanzia che corrisponde a un avviso di colpa anziché a un percorso di chiarimento e di difesa”. E quando a Vito Gamberale gli viene chiesto non solo dell’impossibilità di fare il manager in una nazione che li detesta, ma che idea abbia sul fascicolo aperto dalla procura di Genova nei confronti di Roberto Tomasi – ad di Autostrade –; ebbene, pensando forse a quanto lui ha dovuto sopportare, “l’ingegnere” risponde così: “Non conosco bene Tomasi, ma lo ritengo un eccellente manager. Da quanto leggo può dimostrare la sua estraneità. Gli rivolgo i miei auguri. Sono sinceri”.

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La procura che indaga Tomasi, per attentato alla sicurezza e frode nelle forniture, è la stessa che gli riconosce un “modo di operare diverso da chi lo ha preceduto”. Come si dice in questi casi: “Verrà ascoltato” dai magistrati. Essere “ascoltati” è la vera pena del grande manager? “Nella mia vita – ricorda Gamberale – sono stato convocato, interrogato, e giudicato. Ho incontrato pm, gip, gup e giudici giudicanti. Ogni volta che mi è stato chiesto di chiarire, mi sono presentato e non per timore, ma per dovere nei confronti dell’azienda, degli azionisti. E’ a loro che lo dovevo”. Gamberale ha 74 anni. Lavora ancora. In passato in Iri, Eni, Stet. Ha amministrato la Sip che è poi diventata Telecom quando era proprietà dello stato (“duecento mila dipendenti”). Venne arrestato nel 1994 e fu un’ingiustizia, quella che ha definito “sequestro”. “So che alcuni di quei pm stanno adesso andando in pensione”. Le piacerebbe avere le loro scuse? “Le attendo dopo ventisette anni, ma in realtà mi restituirebbe serenità sapere che il loro unico errore è solo quell’errore”.

 

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In un altro tempo, Gamberale ha amministrato società Autostrade (“ma nella sua fase operativa e non in quella finanziaria”), la società che il governo vorrebbe estromettere, revocarle la concessione. E infatti, malgrado la risposta non sia preceduta dalla domanda, rivela che gli stessi pm che indagano Tomasi hanno ascoltato (e torna di nuovo questo verbo) pure lui. “Per due ore e mezza. Un colloquio rigoroso. E’ questo che deve fare un buon pm. Deve essere ruvido, ma la ruvidezza è un’altra cosa rispetto all’aggressività. Vede, nonostante tutto, ho un’alta opinione dei giudici, ma tendo a fare una distinzione. Ci sono giudici giudicanti che leggono e lavorano in silenzio e giudici che fanno rumore”.

 

Nel chiasso, Gamberale inserisce la confusione che fa indagare a strascico e senza individuare la responsabilità ultima. “Molte volte si indaga un manager per un lavoro mal fatto che è però colpa di un responsabile dei lavori. Semplificare, come il governo si prefigge, significa individuare con scrupolo le responsabilità”. Non vuole per nulla difendere i manager, questi uomini che si descrivono sempre come malvagi e in abito scuro. “Sono il primo a sapere che tanti amministrano in maniera disinvolta, mettendo in pericolo azionisti, risparmiatori con i loro gesti di imprudenza. Ma non si può inseguire o urlare per strada contro la classe dirigente, la casta. Questo è un paese che non riesce ad avere sobrietà. Un paese senza classe dirigente è come un’automobile senza ruote”.

  

Gamberale è stato classe dirigente: classe Iri. Nell’aria, ultimamente, si respira il profumo antico delle aziende di stato. E’ la soluzione che si prepara per Autostrade. E’ un’ipotesi concreta? “Non voglio rispondere su questo argomento. E’ un tema troppo caldo”. Ma una cosa la dice ed è sul rinsavimento postumo. “Per gestire una grande società come Autostrade servono uomini adeguati. L’Iri ne ha formati molti. Non vedo scuole di classe dirigente. Si dice “diamola allo stato”. Ma manca un progetto. Anche per andare a cenare bisogna scegliere in quale ristorante andare. Forse eravamo boiardi, come ci accusavano per denigrarci, ma avevamo un’idea di come fare funzionare il mondo che, per noi, non era altro che l’azienda”.

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