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Il Pd sospeso

Salvatore Merlo

Orlando, Bonaccini, Sala. Tutti mimano un congresso che non c’è. L’unità e il governo prima di tutto

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Roma. Un partito, una confederazione di correnti sospesa ai blocchi di partenza, dove ciascuno mima la lotta congressuale ben sapendo però che il congresso non è alle viste, anzi, come dice uno dei più importanti ex ministri, “non se ne deve nemmeno parlare. E il primo che ne parla viene crocifisso”. Ecco come si presenta il Pd, agli occhi dei suoi stessi dirigenti, sotto la guida morbida e notarile di Nicola Zingaretti, il segretario la cui forza deriva dalla capacità di mediazione e dall’aver trasformato l’unità del partito in un fine, non in un mezzo per fare politica. E infatti Zingaretti non dice mai nulla, è un garante, mentre altri, Andrea Orlando e Stefano Bonaccini, soprattutto, si allenano e si posizionano, in attesa di qualcosa che prima o poi dovrà accadere: la caduta del governo, le elezioni, il congresso. O tutte queste cose insieme. 

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Roma. Un partito, una confederazione di correnti sospesa ai blocchi di partenza, dove ciascuno mima la lotta congressuale ben sapendo però che il congresso non è alle viste, anzi, come dice uno dei più importanti ex ministri, “non se ne deve nemmeno parlare. E il primo che ne parla viene crocifisso”. Ecco come si presenta il Pd, agli occhi dei suoi stessi dirigenti, sotto la guida morbida e notarile di Nicola Zingaretti, il segretario la cui forza deriva dalla capacità di mediazione e dall’aver trasformato l’unità del partito in un fine, non in un mezzo per fare politica. E infatti Zingaretti non dice mai nulla, è un garante, mentre altri, Andrea Orlando e Stefano Bonaccini, soprattutto, si allenano e si posizionano, in attesa di qualcosa che prima o poi dovrà accadere: la caduta del governo, le elezioni, il congresso. O tutte queste cose insieme. 

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E infatti Andrea Orlando, il vicesegretario e “figlio del partito”, inteso come Pci, nel mutismo di Zingaretti (appena incrinato, talvolta, da un’intervista di Goffredo Bettini), è attivo e reattivo sul proscenio del dibattito pubblico. E insieme a una squadra di amici e alleati, tra cui il ministro Beppe Provenzano, con interviste e dichiarazioni ha trovato una sua linea, un profilo per la sinistra italiana a venire che potrebbe essere sintetizzato così: la crisi del coronavirus è l’opportunità per tornare al capitalismo di stato. E allora ecco l’accenno a una legge sul conflitto d’interessi rivolta al gruppo Fca, ecco l’idea (smentita o ritrattata) sulla partecipazione dello stato nei cda delle aziende private, ecco le fotografie su Twitter della facciata del palazzo di edilizia popolare in cui Orlando vive specificando “al piano terra”.

 

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La linea, insomma, è Corbyn più l’Iri più la Cassa del Mezzogiorno. Un ritorno a Botteghe Oscure, dicono i maliziosi, o alla Cina di Deng Xiaoping, cui si contrappongono, dentro e collateralmente al Pd, una serie di outsider del pensiero riformista, amministratori per la verità adesso appannati per via del Covid, come il sindaco di Milano Beppe Sala e il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Ma soprattutto a darsi da fare è Stefano Bonaccini, il presidente dell’Emilia-Romagna che sta a Zingaretti come Luca Zaia sta a Salvini, e che, com’è stato ampiamente notato, ha anche pubblicato due libri in due mesi (uno dei due è quasi una dichiarazione d’intenti perché s’intitola: “La destra si può battere”). Ma questa è tutta una contesa che mima soltanto il congresso, si tratta infatti di posizionamenti all’interno di un accordo di ferro, incoercibile, tra le correnti, un patto di cui l’attuale segretario Zingaretti è per adesso il custode: l’unità del partito prima di tutto. E infatti ogni decisione del Pd è fin qui stata semplicemente la presa d’atto dell’orientamento maggioritario tra i gruppi organizzati: sul governo Conte, per esempio. Zingaretti non avrebbe voluto mai farlo nascere, ma poi si è adeguato perché così volevano gli altri. Tenere unito il partito significa tenere sempre conto dell’equilibrio. E in questo schema bloccato ognuno punta ad avere la corrente più forte.

 

In attesa di un domani. Ma senza provocare attrito. Senza strafare. Infatti nessuno pensa nemmeno lontanamente d’influire sulle politiche di governo con le sue idee anche quando sono palesemente contrarie a quelle dell’esecutivo, nemmeno Orlando che pure ne agita parecchie in materia economica e ogni tanto forse mette anche un po’ in difficoltà il ministro Roberto Gualtieri. Il governo di Giuseppe Conte è d’altra parte il regno della necessità, e non si può scherzare. Il resto è il regno della libertà, o della fantasia. Al punto che tutte le correnti, compresa quella di Orlando, hanno respinto la mozione di sfiducia ad Alfonso Bonafede, il ministro grillino la cui attività si è concentrata in gran parte nello smontare e criticare proprio tutto quello che Orlando stesso aveva fatto ai tempi in cui era lui il ministro della Giustizia. Ma allora perché si muovono e si posizionano? Semplicemente perché tutti sono consapevoli della debolezza dell’equilibrio di governo, sanno che uno choc esterno potrebbe anche far venire giù tutto da un momento all’altro. E allora, intanto, senza provocare danni, si mettono nella postura migliore. Non si sa mai.

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