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La tentazione di Renzi: graziare Bonafede per pesare di più

Valerio Valentini

Cosa vuole il leader di Italia viva per salvare il ministro: il sì al piano choc e forse un renziano ai Trasporti

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Roma. Che il rischio sia concreto lo dimostra la solerzia con cui Federico D’Incà, appena saputo della mozione “garantista” contro Alfonso Bonafede, quella promossa da Emma Bonino e Matteo Richetti, abbia contattato gli estensori per chiedere se davvero avessero intenzione di andare in fondo, oltre che per capire quanto quell’azione ostile, potenzialmente letale, verso il Guardasigilli fosse concordata con Matteo Renzi. Avesse saputo, il ministro per i Rapporti col Parlamento, in che modo Davide Faraone aveva descritto la mozione ai suoi senatori di Italia viva, forse si sarebbe risparmiato le telefonate. Perché domenica pomeriggio il capogruppo di Iv al Senato descriveva quello depositato da Richetti e Bonino come “un testo ancora più insidioso, per noi”, anche perché “i nostri voti saranno decisivi”. E qui, dunque, si capisce che il rischio è anche per Renzi. Che infatti, in un moto di assemblearismo inusuale per il personaggio, ieri mattina ha detto ai suoi parlamentari che “sì, so di grandi discussioni tra noi sulla questione Bonafede. Per cui ditemi la vostra, decidiamo insieme”. La verità è che l’ex premier tentenna, stavolta: salvare Bonafede, per lui, equivarrebbe a svelare l’inganno, a certificare che allora è vero quel che dicono al Nazareno, “che la pistola che Renzi tiene sul tavolo è caricata a salve”. Ma essere conseguente alle minacce, impallinare il ministro contro cui per primo il leader di Iv ha puntato il dito, al di là dei malumori interni alla truppa, che conseguenze avrebbe? “Se cade Alfonso, si va a votare”, ripetono i ministri del M5s. Ma anche questa è un’arma spuntata. E a dimostrarlo starebbero, tra l’altro, le parole di uno di loro, il più illustre, e l’interpretazione che di quelle parole danno i suoi fedelissimi. “Di Maio da Fazio è stato chiaro: la priorità è restare al governo”, dicono i confidenti del capo della Farnesina.

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Roma. Che il rischio sia concreto lo dimostra la solerzia con cui Federico D’Incà, appena saputo della mozione “garantista” contro Alfonso Bonafede, quella promossa da Emma Bonino e Matteo Richetti, abbia contattato gli estensori per chiedere se davvero avessero intenzione di andare in fondo, oltre che per capire quanto quell’azione ostile, potenzialmente letale, verso il Guardasigilli fosse concordata con Matteo Renzi. Avesse saputo, il ministro per i Rapporti col Parlamento, in che modo Davide Faraone aveva descritto la mozione ai suoi senatori di Italia viva, forse si sarebbe risparmiato le telefonate. Perché domenica pomeriggio il capogruppo di Iv al Senato descriveva quello depositato da Richetti e Bonino come “un testo ancora più insidioso, per noi”, anche perché “i nostri voti saranno decisivi”. E qui, dunque, si capisce che il rischio è anche per Renzi. Che infatti, in un moto di assemblearismo inusuale per il personaggio, ieri mattina ha detto ai suoi parlamentari che “sì, so di grandi discussioni tra noi sulla questione Bonafede. Per cui ditemi la vostra, decidiamo insieme”. La verità è che l’ex premier tentenna, stavolta: salvare Bonafede, per lui, equivarrebbe a svelare l’inganno, a certificare che allora è vero quel che dicono al Nazareno, “che la pistola che Renzi tiene sul tavolo è caricata a salve”. Ma essere conseguente alle minacce, impallinare il ministro contro cui per primo il leader di Iv ha puntato il dito, al di là dei malumori interni alla truppa, che conseguenze avrebbe? “Se cade Alfonso, si va a votare”, ripetono i ministri del M5s. Ma anche questa è un’arma spuntata. E a dimostrarlo starebbero, tra l’altro, le parole di uno di loro, il più illustre, e l’interpretazione che di quelle parole danno i suoi fedelissimi. “Di Maio da Fazio è stato chiaro: la priorità è restare al governo”, dicono i confidenti del capo della Farnesina.

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Restarci, dunque, anche se la testa di Bonafede rotola? Difficile da dire. “Di norma si sfiducia un ministro per sfiduciare un governo”, dice Pier Ferdinando Casini. “Qui invece nessuno vuole una crisi al buio, ma Bonafede è indifendibile per tutti i disastri che sta combinando”. E si ritorna allo stallo, dunque. “La verità – dice il luogotenente renziano Ettore Rosato – è che il destino di Bonafede è nelle mani di Conte”. Nel senso che, al di là della valutazione di merito sulle sciagure di Via Arenula, il nodo è tutto politico. E allora Renzi prova quasi ad alimentare il malessere dei suoi per poi mostrarsi “nei panni del pompiere”, dice. E lo fa spiegando che “Conte ha dato segnali importanti nelle ultime ore a Iv: la cancellazione dell’Irap, la regolarizzazione dei migranti chiesta dalla Bellanova, l’anticipo della riapertura delle attività”. E un altro segnale Renzi se lo aspetta oggi, dal premier, e ha a che vedere col piano shock, su cui Renzi chiede un riconoscimento di paternità. “Il punto è che dobbiamo arrenderci all’evidenza: l’unico con una visione strategica in questo governo è proprio Renzi”, dice il suo sottosegretario Ivan Scalfarotto. “Il piano shock lo presentammo noi mesi fa, nell’indifferenza generale. Ora tutti ammettono che è una priorità”. E però non tutti concordano sulla strategia da seguire, al punto che il lavoro sul “piano shock” è stato già diviso in due. A Palazzo Chigi si lavora sulle misure straordinarie da adottare per un periodo limitato di sei mesi o un anno, durante l’emergenza economica; al Mit Paola De Micheli ha invece istituito un tavolo per riformare in maniera strutturale, ma con interventi meno drastici, il Codice degli appalti. E quanto i renziani siano intenzionati a evitare le secche di una contrattazione a rilento, lo dimostra il fatto che l’ex premier ha rifiutato di indicare un suo delegato a quel gruppo di lavoro. “Se ne deve occupare Conte della cosa, e basta”.

  

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E nell’occuparsene, forse il premier dovrebbe anche affidarne la realizzazione a un renziano, magari concedendo a Iv la guida del Mit. Questo, almeno, è ciò che Renzi vorrebbe a sentire le malizie degli esponenti del Pd. Lui, al contrario, ribatte che “a un rimpastino non ci penso neppure”, perché in fondo finirebbe per rafforzare Conte. Che dalla sua, peraltro, ha anche il calendario: con un decreto “Rilancio” da 55 miliardi da convertire, nei prossimi due mesi sarà difficile pianificare una crisi. Un decreto, peraltro, che a cinque giorni dalla sua approvazione in Cdm ancora attende di essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale. “Ci andrà entro domani”, aveva giurato Conte sabato. E invece ieri sera mancava ancora la bollinatura della Ragioneria dello stato (a cui il decreto è stato mandato a puntate, con la prevedibile irritazione dei tecnici) e dunque il vaglio successivo del Quirinale, dove il testo definitivo non è ancora arrivato. Farsi forte delle proprie debolezze consente al premier di restare in piedi. E Bonafede, per paradossale che sia, è tra queste.

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