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Governo cercasi

Valerio Valentini

La tarantella sulle scuole segnala il caos rossogiallo. Franceschini litiga con Conte. Ma il virus li tiene uniti

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Roma. Alle cinque del pomeriggio, quando ancora non è chiaro se la decisione verrà presa oppure no, o magari rinviata, Alessia Rotta si stringe nelle spalle: “Questo è un governo che si regge sul compromesso”, dice la deputata del Pd, nella buvette di Montecitorio. Solo che le scuole no, non possono restare socchiuse, aperte solo un po’. “E infatti quando bisogna decidere davvero, bianco o nero, si entra in difficoltà”. Fosse stato per Dario Franceschini, la decisione sarebbe stata chiara già martedì sera. “Ma come possiamo imporre agli italiani di non stringersi le mani, e nel frattempo non chiudere le scuole?”, era sbottato il capo delegazione del Pd di fronte al premier, in un confronto che, dice chi c’era, c’è mancato poco che si trasformasse in una zuffa.

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Roma. Alle cinque del pomeriggio, quando ancora non è chiaro se la decisione verrà presa oppure no, o magari rinviata, Alessia Rotta si stringe nelle spalle: “Questo è un governo che si regge sul compromesso”, dice la deputata del Pd, nella buvette di Montecitorio. Solo che le scuole no, non possono restare socchiuse, aperte solo un po’. “E infatti quando bisogna decidere davvero, bianco o nero, si entra in difficoltà”. Fosse stato per Dario Franceschini, la decisione sarebbe stata chiara già martedì sera. “Ma come possiamo imporre agli italiani di non stringersi le mani, e nel frattempo non chiudere le scuole?”, era sbottato il capo delegazione del Pd di fronte al premier, in un confronto che, dice chi c’era, c’è mancato poco che si trasformasse in una zuffa.

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E così la chiusura delle scuole era rimasta a mezz’aria (“Ma certo che verranno chiuse”, rassicurava i suoi colleghi ieri mattina Anna Ascani, sottosegretaria all’Istruzione dem), finendo col precipitare nei primi lanci d’agenzia. Apriti cielo. Giuseppe Conte, che da giorni – dopo aver sposato la linea allarmistica a reti unificate – si mostra riluttante a scelte che potrebbero apparire troppo drastiche, s’infuria. La ministra Lucia Azzolina si sente scavalcata. La comunicazione di Palazzo Chigi va in tilt. Ne segue una tarantella imbarazzante di conferme e smentite, da cui il premier prova a uscire, a sera, tirando in ballo il comitato scientifico dell’Istituto superiore della sanità (vedi l’editoriale qui).

  

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Il coronavirus, del resto, preoccupa tutti, ma ad ammettere i rischi di una possibile degenerazione della crisi sono soprattutto i ministri del Pd. La cifra a cui si fa riferimento è quella dei 14 mila casi di contagiati: se si supererà quella soglia, il sistema sanitario entrerà in crisi. Per questo Conte ribadisce che l’obiettivo è raddoppiare i posti letto nei reparti di pneumologia, alzare del 50 per cento quelli della terapia intensiva. Dunque s’allestiranno tensostrutture dove necessario, si riapriranno ospedali dismessi dove possibile.

 

E come se la giornata non avesse già la sua dose di pena, si colora anche di grottesco. Perché in commissione Finanze l’accordo raggiunto da Pd, Leu, M5s e Iv per votare il grillino Nicola Grimaldi come nuovo presidente non regge; la maggioranza va sotto, il M5s si spacca e viene eletto Raffaele Trano, grillino pure lui ma con la sua scorta di risentimenti interni non smaltiti. “Resti ancora in maggioranza, ora che sei stato eletto coi voti dell’opposizione e del Misto?”, gli chiede il dem Claudio Mancini. Lui, di tutta risposta, festeggia su Facebook: “Sarò il presidente di tutti”. E’ un segnale, più che altro, del caos che regna tra i giallorossi, ma è chiaro che le opposizioni lo interpretino come qualcosa di più: “E’ un bene che una commissione tecnica abbia un presidente eletto coi voti di tutti, in una fase così delicata”, dice Sestino Giacomoni, fedelissimo del Cav. Il leghista Massimo Bitonci va oltre: “Conte si dimetta: c’è un’altra maggioranza in Parlamento”. E chissà che in verità qualcuno non stia pensando di allargarli davvero, i confini della maggioranza. Matteo Salvini, ad esempio, ci pensa eccome. E martedì, irrompendo nella riunione dei segretari regionali convocata a Roma da Calderoli, lo ha lasciato capire: “Mi ha scritto anche Calenda per propormi le sue proposte di rilancio dell’economia. E sono condivisibili. Se si trattasse solo di salvare il paese con un programma condiviso, come potremmo tirarci indietro?”. E però c’è l’altro problema: quella Giorgia Meloni che non vede l’ora di gridare all’inciucio. E però Luigi Di Maio, rompendo il velo di finzione che lo vorrebbe ministro degli Esteri e basta, nel tardo pomeriggio decide di “fare un appello ai leader di tutte le opposizioni, un appello alla responsabilità nazionale”. Lo fa, in verità, fingendo di attaccare proprio Salvini per certe sue dichiarazioni alla stampa spagnola. Ma appare un modo, più che altro, per rivendicare uno spazio, un ruolo, una libertà di manovra in un’operazione – quella di un governissimo di salute pubblica – che a tanti sembra inevitabile, eppure irrealizzabile. “Un po’ perché mettersi a discutere di nuovi governi ora è da folli”, ammettono nel Pd, mentre a Montecitorio si diffonde un bollettino interno in cui ogni partito conta i suoi casi di sospetti (almeno uno tra i deputati dem) in giro per la Lombardia e l’Emilia, e perfino al ministero della Giustizia, nella squadra di Bonafede, c’è chi opta per un’autosospensione cautelativa, in un clima da psicosi generale (“Davvero tre senatori sono positivi?”, domanda ai colleghi la renziana Annamaria Parente, ricevendo risposte vaghe) dove nessuno esclude che alla fine si possa arrivare alla chiusura delle Camere. “E un po’ non lo si fa il governissimo”, spiega, con logica cristallina, Gianfranco Rotondi, “perché perfino Zaia non si fida di Salvini, quindi figurarsi se possa farlo il Pd. Il capo della Lega potrebbe spingere tutti alla rottura in nome della solidarietà nazionale e poi sfilarsi all’ultimo secondo, precipitando il paese verso il voto. Quindi meglio lasciare tutto così, imballato”. Sperando che il coronavirus passi presto.

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