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Il futuro del governo passa anche da una pazza idea di doppio forno di Renzi

Valerio Valentini

Il Pd osserva con sospetto Italia viva, i renziani alzano la posta sulle nomine, la Lega ora teme il pantano. Indizi di una nuova stabilità. Oltre lo schema prescrizione

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Roma. Talvolta anche i piccoli indizi indicano l’inizio di un percorso. “E’ chiaro che la nomina di Ernesto Maria Ruffini all’Agenzia delle entrate è un regalo a Matteo Renzi”, dice, nella buvette di Montecitorio, Giorgio Mulè. Il quale, di primo mattino, ha strabuzzato gli occhi nel leggere l’intervista in cui il suo collega di Forza Italia Renato Brunetta lancia l’idea di un governo di centrodestra col sostegno di Italia viva. “Una iniziativa personale”, si schermisce Mulè. E sembrerà strano, ma le due notizie si legano in modo netto, nei conciliaboli del Transatlantico. Perché in effetti il ritorno di Ruffini in quell’Agenzia dove proprio Renzi lo aveva voluto, nel 2016, è un chiaro segnale mandato all’ex premier. “Sì, era una nomina che avevamo richiesto”, conferma Luigi Marattin. E se la richiesta è stata esaudita, però, è perché chi più d’ogni altro regge le sorti del governo, e cioè Dario Franceschini, forse la teme davvero la mossa del cavallo del senatore di Scandicci. D’altronde devono essere arrivate anche alle orecchie del capo delegazione del Pd le lusinghe di quei deputati leghisti piemontesi che lunedì pomeriggio provavano a irretire i renziani: “Pensateci, sarebbe l’ideale per tutti”. E devono essere risuonati tra i corridoi di Palazzo Madama anche i ragionamenti non proprio edulcorati di Roberto Calderoli, che all’idea di dover passare tre anni nel pantano dell’opposizione per colpa della scellerata spregiudicatezza di Matteo Salvini non s’è affatto rassegnato. E allora meglio prevenire, meglio imbonire lo scalpitante alleato di governo. Perché Renzi, anche parlando coi suoi, ha lasciato capire che il ribaltone al momento non è in programma, ma se fosse l’unica exit strategy la valuterebbe, eccome.

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Roma. Talvolta anche i piccoli indizi indicano l’inizio di un percorso. “E’ chiaro che la nomina di Ernesto Maria Ruffini all’Agenzia delle entrate è un regalo a Matteo Renzi”, dice, nella buvette di Montecitorio, Giorgio Mulè. Il quale, di primo mattino, ha strabuzzato gli occhi nel leggere l’intervista in cui il suo collega di Forza Italia Renato Brunetta lancia l’idea di un governo di centrodestra col sostegno di Italia viva. “Una iniziativa personale”, si schermisce Mulè. E sembrerà strano, ma le due notizie si legano in modo netto, nei conciliaboli del Transatlantico. Perché in effetti il ritorno di Ruffini in quell’Agenzia dove proprio Renzi lo aveva voluto, nel 2016, è un chiaro segnale mandato all’ex premier. “Sì, era una nomina che avevamo richiesto”, conferma Luigi Marattin. E se la richiesta è stata esaudita, però, è perché chi più d’ogni altro regge le sorti del governo, e cioè Dario Franceschini, forse la teme davvero la mossa del cavallo del senatore di Scandicci. D’altronde devono essere arrivate anche alle orecchie del capo delegazione del Pd le lusinghe di quei deputati leghisti piemontesi che lunedì pomeriggio provavano a irretire i renziani: “Pensateci, sarebbe l’ideale per tutti”. E devono essere risuonati tra i corridoi di Palazzo Madama anche i ragionamenti non proprio edulcorati di Roberto Calderoli, che all’idea di dover passare tre anni nel pantano dell’opposizione per colpa della scellerata spregiudicatezza di Matteo Salvini non s’è affatto rassegnato. E allora meglio prevenire, meglio imbonire lo scalpitante alleato di governo. Perché Renzi, anche parlando coi suoi, ha lasciato capire che il ribaltone al momento non è in programma, ma se fosse l’unica exit strategy la valuterebbe, eccome.

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“Meglio dargli uno spazio di manovra”, si sono detti, allora, nel Pd. E si sa che le nomine, per chi sa e vuole fare politica, sono essenziali. Specie quelle delle grandi partecipate di stato, previste in primavera. E sarà un caso, ma proprio in queste ore pare che tutto si sia congelato, col dg del Tesoro Alessandro Rivera impegnato a evitare colpi di mano, a ribadire che la fretta che c’era fino a qualche giorno fa, quando l’incognita dell’Emilia incombeva sul destino del governo, ora non ha più motivo di esistere. E così nel quartier generale di Eni si sta valutando di rimandare al 13 maggio l’assemblea degli azionisti che dovrebbe ratificare le nomine. Se così sarà, anche la redazione delle famigerate liste verrebbe posticipata a dopo il referendum sul taglio dei parlamentari – quello che di fatto blinderebbe la legislatura – quando si capirà con più chiarezza anche l’evoluzione delle convulsioni grilline.

 

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Perché il M5s è ormai una polveriera, attraversata da tensioni contrapposte: tant’è che, se in Sicilia un pezzo del gruppo consiliare medita di virare a destra verso Musumeci, in regione Lazio si struttura sempre più il dialogo tra un manipolo di grillini guidati da Marco Cacciatore e la sinistra civica che sostiene Zingaretti. Per non parlare del Parlamento, dove la chiusura di Luigi Di Maio – per interposto Vito Crimi – alle alleanze sui territori col Pd ha innescato, ieri, l’ennesima rivolta interna, coi pugliesi che già stanno scrivendo al reggente per chiedere un incontro e i campani che domenica si confronteranno a Napoli in una riunione che si preannuncia tribolata. Il tutto in un clima da guerriglia interna intorno all’ipotesi del “fronte progressista” invocata dal premier Conte. “Se il Pd apre un ‘campo largo’, noi abbiamo il dovere di provare a starci”, dice il deputato Paolo Lattanzio, tratteggiando i contorni di una “mozione” da presentare agli stati generali. “Da cui non è escluso che di M5s ne escano due, divisi”, sorride Raphael Raduzzi, risolutamente contrario a qualsiasi avvicinamento al centrosinistra. Anche per questo, non potendo prevedere gli esiti del caos grillino, Franceschini puntella la maggioranza e rabbonisce Renzi. “I due si parlano, eccome: sanno entrambi che è interesse di tutti arrivare al 2023 senza stravolgimenti”, sussurra Pier Ferdinando Casini. Ma evidentemente i timori legati all’imprevedibilità che aleggiano sul suo conto, Renzi non fa nulla per dissiparli, sapendo che anche da quelli passa la sua capacità di negoziare sulle nomine. Coi suoi resta enigmatico, ma al tempo stesso perentorio. “Chi avesse dubbi sulla lena politica – ha detto ieri ai suoi parlamentari – legga l’intervista di Massimo D’Alema secondo cui la morte del M5s sarebbe un guaio”. D’Alema, che guarda caso è attivissimo nelle trattative per le nomine di primavera.

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