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La lunga marcia di Giorgia

Il centrodestra non è più soltanto Salvini, e Meloni comincia a dirlo

Salvatore Merlo

In Emilia sconfitta la leghista Borgonzoni, ma non la destra. I dubbi di FdI sulla gestione delle candidature. I dispetti della Lega agli alleati

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Roma. Cosa pensassero gli alleati di centrodestra intorno alla candidatura di Lucia Borgonzoni, imposta da Matteo Salvini in Emilia-Romagna contro Stefano Bonaccini, l’aveva all’incirca chiarito Ignazio La Russa una decina di giorni fa. I dirigenti di Fratelli d’Italia compulsavano sondaggi, ci si attrezzava alla campagna elettorale, si osservava Bonaccini, si tornava a soppesare Borgonzoni, e il vecchio Ignazio, sguardo sornione e battuta fulminante: “Digiamolo, speriamo che non vinca il migliore”. Non è andata così, digiamolo. E ieri, nei conciliaboli, gli uomini di FdI, entusiasti del risultato personale di Giorgia Meloni (secondo partito della coalizione e voti quintuplicati rispetto alle scorse regionali in Calabria) insistevano non oziosamente su quello scarto di voti tra le liste in Emilia-Romagna e il candidato leghista Borgonzoni. 1,8 per cento, non una percentuale enorme – certo – ma abbastanza da confermare l’analisi: con un candidato migliore, e senza le sparate al citofono di Salvini, chissà come sarebbe andata. Ovviamente le elezioni, come la storia, non si fanno con i se. Tuttavia “in Emilia si è mobilitata l’epica del Pci. E l’abbiamo capito subito, domenica, quando l’affluenza era alta”, dice Andrea Augello, con l’aria provvida d’esperienza. “Se esageri, anche quelli esagerano”. Ed è quello che probabilmente pensa anche la leader, Meloni, la quale si guarda bene dal dirlo, malgrado qualche allusione, tipo: “Sulle candidature ci vorrebbe più collegialità”. Se infatti Salvini teneva la foto del caduto Renzi sulla scrivania per ricordarsi (ma non ha funzionato) degli errori da non compiere, Meloni ha sul comodino la foto di Gianfranco Fini. “Volete che io prenda le distanze da Salvini. Ve lo dico subito: non è nel mio stile”.

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Roma. Cosa pensassero gli alleati di centrodestra intorno alla candidatura di Lucia Borgonzoni, imposta da Matteo Salvini in Emilia-Romagna contro Stefano Bonaccini, l’aveva all’incirca chiarito Ignazio La Russa una decina di giorni fa. I dirigenti di Fratelli d’Italia compulsavano sondaggi, ci si attrezzava alla campagna elettorale, si osservava Bonaccini, si tornava a soppesare Borgonzoni, e il vecchio Ignazio, sguardo sornione e battuta fulminante: “Digiamolo, speriamo che non vinca il migliore”. Non è andata così, digiamolo. E ieri, nei conciliaboli, gli uomini di FdI, entusiasti del risultato personale di Giorgia Meloni (secondo partito della coalizione e voti quintuplicati rispetto alle scorse regionali in Calabria) insistevano non oziosamente su quello scarto di voti tra le liste in Emilia-Romagna e il candidato leghista Borgonzoni. 1,8 per cento, non una percentuale enorme – certo – ma abbastanza da confermare l’analisi: con un candidato migliore, e senza le sparate al citofono di Salvini, chissà come sarebbe andata. Ovviamente le elezioni, come la storia, non si fanno con i se. Tuttavia “in Emilia si è mobilitata l’epica del Pci. E l’abbiamo capito subito, domenica, quando l’affluenza era alta”, dice Andrea Augello, con l’aria provvida d’esperienza. “Se esageri, anche quelli esagerano”. Ed è quello che probabilmente pensa anche la leader, Meloni, la quale si guarda bene dal dirlo, malgrado qualche allusione, tipo: “Sulle candidature ci vorrebbe più collegialità”. Se infatti Salvini teneva la foto del caduto Renzi sulla scrivania per ricordarsi (ma non ha funzionato) degli errori da non compiere, Meloni ha sul comodino la foto di Gianfranco Fini. “Volete che io prenda le distanze da Salvini. Ve lo dico subito: non è nel mio stile”.

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E insomma tutti sanno che la strategia da agitatore di piazza (e molestatore da citofono) ha portato Salvini lontano. Eppure tutti capiscono anche che la sua qualità, quella che lo portò a divenire la voce della propaganda di viscera del bossismo su Radio Padania, è allo stesso tempo il suo limite. Nella Lega, tuttavia, fanno più che altro spallucce, per citare il capogruppo Riccardo Molinari: “Come fai a criticare uno che ti porta sopra il trenta per cento? Lo puoi solo ringraziare. Gli devi accendere un cero”. Ma la strategia della Lega, e di Salvini, non coincide con quella degli alleati di centrodestra, e in particolar modo non è la stessa partita che gioca l’astro nascente della destra italiana, cioè Giorgia Meloni. Salvini ha ingaggiato una corsa a perdifiato e personalistica verso la presidenza del Consiglio. A ogni costo e con tutti i mezzi della propaganda, tralasciando oscuri dettagli quali l’organizzazione, le competenze e l’individuazione di un gruppo dirigente all’altezza.

   

   

Meloni al contrario fa un gioco più sottile, non meno ambizioso ma molto pragmatico. E difficile. Un gioco che tuttavia richiede tempo, tutto quello che è possibile racimolare, almeno due anni, per consolidare una posizione che si attesti intorno ai risultati elettorali della vecchia An, anche a spese degli alleati, e che le consenta di riuscire a fare quello che nessuno ha saputo fare fin qui: trasformare il consenso in un’operazione politica classica, solida, capace cioè di non dissolversi alla prova del governo, com’è invece successo a Salvini ai tempi gialloverdi e anche ai Cinque stelle finiti ormai al 4 per cento per eccesso d’improvvisazione. Dunque Meloni sa di dover riorganizzare il partito, individuando figure di sottogoverno capaci, cioè gente che al momento opportuno saprebbe dove si trovano le leve del potere burocratico-ministeriale, e allo stesso tempo evitando di far emergere troppe mezze tacche in posizioni di comando (rischio che si corre sempre quando si va incontro a una crescita impetuosa). La tentazione di punzecchiare Salvini è ovviamente fortissima. E Salvini, che teme e osteggia FdI, è un maestro di provocazioni politiche al limite del vessatorio (adesso sta mettendo in dubbio la candidatura di Raffaele Fitto, che Meloni vorrebbe contrapporre al centrosinistra in Puglia).

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Ma per portare a termine il suo progetto, Meloni deve diventare zen. Legata a Salvini, ma indipendente da Salvini, e capace di trovare una propria cifra politica che la distingua dal leghista senza mai tuttavia mettere in dubbio la sua lealtà nei confronti dell’alleato. La foto di Gianfranco Fini, sul comò, serve a questo. Un monito. “Non userò mai la sconfitta in Emilia-Romagna per spaccare il centrodestra”, ha detto ieri, ricacciando in gola le critiche. “Ci sono altre sei regioni che si possono vincere, stando uniti. Certo, forse con un gioco più di squadra sarebbe meglio…”. Ma niente di più. Non è ancora il momento. Zen. Con un piano.

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