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In Abruzzo Meloni tenta di ribaltare gli equilibri di forza nella destra

Valerio Valentini

Così la leader di Fratelli d'Italia, partendo dalla regione del “suo” Marsilio, tenta una spallata a Salvini. Rappresaglie sovraniste

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Roma. A volerla ridurre all’osso, la diatriba sta più o meno in questi termini. Siccome Fratelli d’Italia non concede un ruolo da vicesindaco alla Lega nella città capoluogo di regione, gli uomini del Capitano pensano bene di non votare il bilancio del Comune, che poi sarebbe anche il loro bilancio. A quel punto, il sindaco meloniano lo approva coi voti di un pezzo delle opposizioni di centrosinistra e risponde all’affronto subito aprendo le porte del suo gruppo consiliare a un manciata di transfughi, così da potere poi rivendicare la necessità di un rimpasto di giunta e togliere un paio di assessorati al Carroccio. Che a sua volta, però, minaccia la ritorsione in regione, dove i suoi consiglieri sono decisivi per reggere la maggioranza sovranista: per cui basta scherzi, o ce ne andiamo tutti a casa. E tuttavia, a ben vedere, dietro questi bisticci assai poco commendevoli per chi a Roma blatera contro “il governo dell’inciucio che sa discutere solo di poltrone”, s’intravede in controluce qualcosa di più serio e più profondo: e cioè una terra dove, per la prima volta, Giorgia Meloni tenta di ribaltare gli equilibri di forza all’interno della destra, sfruttando la crescita di consensi di questi mesi.

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Roma. A volerla ridurre all’osso, la diatriba sta più o meno in questi termini. Siccome Fratelli d’Italia non concede un ruolo da vicesindaco alla Lega nella città capoluogo di regione, gli uomini del Capitano pensano bene di non votare il bilancio del Comune, che poi sarebbe anche il loro bilancio. A quel punto, il sindaco meloniano lo approva coi voti di un pezzo delle opposizioni di centrosinistra e risponde all’affronto subito aprendo le porte del suo gruppo consiliare a un manciata di transfughi, così da potere poi rivendicare la necessità di un rimpasto di giunta e togliere un paio di assessorati al Carroccio. Che a sua volta, però, minaccia la ritorsione in regione, dove i suoi consiglieri sono decisivi per reggere la maggioranza sovranista: per cui basta scherzi, o ce ne andiamo tutti a casa. E tuttavia, a ben vedere, dietro questi bisticci assai poco commendevoli per chi a Roma blatera contro “il governo dell’inciucio che sa discutere solo di poltrone”, s’intravede in controluce qualcosa di più serio e più profondo: e cioè una terra dove, per la prima volta, Giorgia Meloni tenta di ribaltare gli equilibri di forza all’interno della destra, sfruttando la crescita di consensi di questi mesi.

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Scelta non casuale, quella del laboratorio in cui tentare l’esperimento. Perché questo Abruzzo sovranista – più ancora della Puglia o delle Marche, dove Fratelli d’Italia cerca d’imporre dei candidati presidenti puntualmente bocciati dai leghisti locali, più ancora della Sicilia e dell’Umbria dove Salvini e la Meloni si litigano le spoglie di Forza Italia e si contendono a vicenda i disertori azzurri – è il luogo dove la leader romana sente di potere riscattare anni di subalternità all’odiatissimo alleato milanese. Se non altro, perché una serie di fortunose coincidenze ha fatto sì che FdI esprimesse sia il sindaco del capoluogo di regione sia il governatore. Pierluigi Biondi espugnò L’Aquila nell’estate del 2017 sfruttando, manco a dirlo, le divisioni interne alla sinistra che si rivelarono decisive nel ballottaggio per il candidato del Pd. Marco Marsilio, invece, nel febbraio del 2019 fu catapultato in Abruzzo perché così fu deciso al tavolo delle negoziazioni romane, e vinse delle elezioni dall’esito scontato. Salvini, che fu tentato non poco di fare lo sgarbo all’alleato e correre in solitaria, alla fine dovette desistere: ma lo fece con la convinzione di chi sperava di far poi valere il peso del proprio consenso e tenere sotto scacco il governatore. Solo che la classe dirigente del Carroccio, specie dal Po in giù, è quella che è: e così i 10 consiglieri regionali leghisti, in una maggioranza forte di 18 componenti, non è che brillino per intraprendenza e per sagacia. Né va meglio per gli esponenti di giunta. E così, pur avendo l’assessore alla Sanità, gli uomini del Carroccio finiscono con l’apprendere dai giornali il nome del nuovo dirigente generale della Asl aquilana, deciso appunto da Marsilio e Biondi all’insaputa degli alleati. E lo stesso vale per la scelta dei vertici locali della Corte dei Conti, designati dal presidente di regione d’accordo con un pezzo di Forza Italia che già medita un approdo nel partito della Meloni.

 

 

E si spiega allora il malcontento di Salvini, che non a caso ha provveduto a sostituire il responsabile della Lega in Abruzzo: tolto Giuseppe Bellachioma, capogruppo in commissione Bilancio alla Camera, è arrivato Giuseppe D’Eramo, pure lui deputato e già commissario del Carroccio in Puglia. Il quale, non sapendo bene come arginare l’arrembante spavalderia degli alleati, deve avere pensato bene di scatenare la rappresaglia proprio sui bilanci di fine anno. Quello regionale era stato redatto da Marsilio in maniera talmente autonoma che i leghisti hanno preteso che, nonostante la prassi procedurale, venisse aggiornato: e lo si è fatto, in spregio al senso del ridicolo (e a qualche forzatura regolamentare) aggiungendo a penna (sì, a penna) un paio di voci di spesa di dubbio valore che consentissero ai salviniani di salvare le apparenze e un po’ forse anche la faccia. A L’Aquila, invece, al momento del voto del bilancio, alla vigilia di Natale, gli esponenti leghisti hanno abbandonato il consiglio comunale, pensando di avere così sabotato i lavori della giunta di cui essi stessi fanno parte. Se non che, in soccorso del sindaco Biondi, è intervenuto il gruppo che sostenne, nel 2017, il candidato del Pd poi uscito sconfitto dal ballottaggio. E a quel punto il primo cittadino meloniano ha tentato l’azzardo del contrattacco, lasciando trapelare l’intenzione di varare un nuovo rimpasto, dopo quello del marzo scorso che aveva aperto di fatto le ostilità con gli odiati amici leghisti. E sono dovuti intervenire i vertici nazionali del partito per stoppare l’operazione, perché il timore di una ulteriore vendetta leghista in regione a quel punto era concreto. Ché sì, va bene, “prima gli italiani”, e prima ancora degli italiani, ovviamente, “gli abruzzesi”: ma prima prima, soprattutto, le poltrone.

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