Lupo Rattazzi (foto LaPresse)

Lupo Rattazzi ci dice perché ha deciso di finanziare il partito di Renzi

Michele Masneri

Ricordate il Pri? Cinquantamila euro al nuovo partito dall'imprenditore, che qui spiega cosa lo spinge a sostenere l'ex premier

Roma. Sessantasei anni, abito blu, camicia azzurra, Lupo Rattazzi, nipote dell’avvocato Agnelli, riceve ai Fori imperiali a Roma ma lavora a Milano, dove dirige la Neos, compagnia aerea privata, dopo aver fondato la Air Europe. “E’ vero, ho donato cinquantamila euro al nuovo partito di Renzi, confessa Rattazzi, una compagna californiana, due figli. “Ma non è né la prima né l’ultima volta che lo farò”, dice Rattazzi, che effettivamente figura nell’albo dei donatori del nuovo misterioso organismo renziano, insieme al finanziere Davide Serra e al manager del cioccolato Daniele Ferrero. “Ma non è una novità, ho cominciato a finanziare Renzi un anno fa, in tempi non sospetti, perché mi ero accorto dello svantaggio terrificante che aveva accumulato in termini di presenza sui social, e questo è un campo molto importante per vincere o perdere le elezioni”. “Soprattutto”, dice Rattazzi, “rispetto ad altre forze che si finanziano in modo opaco e/o grazie a governi stranieri”. Cinque stelle e Lega, ovvio. “Ritenni che fosse opportuno dare una mano, a Renzi ingiustamente additato di qualunque malefatta. Penso invece che sia stata una forza positiva e possa continuare a esserlo. E poi mi piace combattere contro i mulini a vento”. Soprattutto combattere con “la Bestia e con la piattaforma Rousseau”.

 

Rattazzi, nonostante l’aplomb agnellesco, è celebre per scatenarsi su Twitter e ogni tanto compra pagine di giornale. “Lupo Rattazzi, imprenditore”, c’era scritto su Repubblica del 31 maggio 2018 in cui chiedeva conto a Salvini e Di Maio (e a Savona) delle conseguenze di un’uscita dell’Italia dall’euro. “Voi queste cose le avete raccontate al vostro elettorato, soprattutto quello che vive di salari e pensioni?” era la domanda, riferita a svalutazione e conseguenze possibili di un’Italexit.

 

Ma davvero il governo gialloverde ci avrebbe portato al baratro? “Non lo so”, riflette. “Forse, a un metro dal precipizio questi quaquaraquà si sarebbero tirati indietro. Sarebbe successo come in Grecia, insomma. Sono comunque pericolosi, perché ti alzano il costo del debito, allontanano gli investitori. Guarda qua”. Prende un grafico sul computer con una curva che improvvisamente si alza e poi torna normale, “è della mia banca, ma ce l’hanno tutti, io lo chiamo il ‘Salvini-premium’, cioè il prezzo che il sistema paese ha pagato per un anno di parole in libertà di Salvini e i suoi, Borghi e Rinaldi”. Il suo amato Rinaldi, che in uno dei suoi tweet ha chiamato “l’Alberto Sordi dell’economia”. Rattazzi, dopo una laurea a Columbia in Economia e un master in Economia pubblica ad Harvard, ha lavorato con Guido Carli e con Paolo Savona al centro studi di Confindustria (“mi dette una grande opportunità, nel ’77 mi offrì il mio primo lavoro. Di questo gli sono riconoscente. Però non capirò mai come può stare con questi qua”, ha detto qualche tempo fa). Adesso invece finalmente “Renzi ha detto che vuole fare una formazione pro-business, una cosa inedita. Nessuno in Italia ha mai avuto il coraggio di dire una cosa del genere, in un paese ipocrita come il nostro sui soldi. Con tutto il retaggio cattocomunista e il senso di colpa sul capitalismo, mi sembra altamente lodevole”, dice il pronipote di un presidente del Consiglio (quell’Urbano Rattazzi che si chiama come suo padre). “Io ho cominciato ad apprezzare Renzi sette anni fa, quando c’era Serra che organizzò una colazione a Milano, al Four Seasons, e Bersani, interpellato, tirò fuori tutte le solite tiritere, disse che non bisogna andare dai capitalisti che hanno i soldi alle Cayman. ‘Io starei molto attento a demonizzare quelli che hanno i soldi alle Cayman’, disse Renzi, ‘perché poi magari son quelli che acquistano i titoli del debito italiano’. Allora ho capito che era di un’altra categoria”.

 

Questa cosa di mettere mano al portafogli gli viene dalla sua educazione in parte americana? “Ma no, c’è da quando ero giovane, dal mio essere europeista, da quando lavoravo con Carli. Io garantisco il mio supporto a chi mi garantisce che l’Italia resti agganciata all’Europa. Perché senza l’Europa, l’Italia diventerebbe immediatamente come l’Argentina”. Inviterebbe altri imprenditori a seguirla nel finanziare Renzi? “Ma non ce n’è bisogno!”, dice Rattazzi. “Già ci sono. E comunque sì, certo”. E Calenda che farà ora? Rattazzi, che lo conosce bene, riflette che “sarebbe meglio non andare in ordine sparso con le alternative al centro. Di sicuro avremo un menu più ricco alle prossime elezioni di quello che abbiamo avuto alle ultime. Ma magari col tempo, per parlare con un vocabolario da business, ci sarà spazio per un consolidamento tra i due”.

 

Il partito renziano sarà tipo quel Pri che è sempre stato quello degli Agnelli e a cascata delle élite italiane? “Beh, sì, certo, un partito di centro per definizione non può avere parole d’ordine roboanti. Sarà formato da persone serie, moderate, senza slogan ridicoli, senza illusioni che imbarcano una quantità notevoli di voti con parole d’ordine semplicistiche”. Se le chiedessero di avere qualche ruolo, ci starebbe? “Certamente. E’ un momento in cui bisogna dare anima e cuore al paese”. Questi soldi comunque sono “solo un pezzo di questa collaborazione, ma ce ne saranno altri”. Dice bene lei Rattazzi, ricco di famiglia e pure capitalista di suo. “Ma c’è a chi piace comprarsi barche, io preferisco fare così”. Le daranno del pericoloso elitista? “Lo so. E va bene così”.

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