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Tutto quello che non torna nello sblocca cantieri

Rocco Todero

Dopo le "minacce" di Giuseppe Conte, Lega e M5s hanno deciso di far ripartire l’iter d’approvazione del decreto che modifica il vigente Codice degli appalti. Ci sono però diversi punti deboli

Com’è noto dopo la minaccia del presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte, di abbandonare la guida dell’Esecutivo nell’ipotesi di perdurante stasi dell’azione di Governo, (minaccia definita opportunamente su queste colonne penultimatum), i due vice premier, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, hanno deciso di far ripartire l’iter d’approvazione del cosiddetto decreto sblocca cantieri pensato per modificare il vigente Codice degli appalti e per sospenderne temporaneamente alcune parti.

 

Dato che al di sotto delle soglie comunitarie previste dalle direttive europee gli stati nazionali non sono obbligati a osservare scrupolosamente le procedure previste e quindi godono di un ampio margine di discrezionalità (che dovrebbe però esercitare in scrupoloso ossequio ai principi di trasparenza, imparzialità, concorrenza e affidabilità degli operatori economici), il governo italiano con lo sblocca cantieri si prefigge, innanzitutto, “di rilanciare gli investimenti pubblici e di facilitare l’apertura dei cantieri per la realizzazione delle opere pubbliche” e per raggiungere questi obiettivi si affida a strumenti legislativi la cui efficacia appare davvero dubbia.

 

Non si comprende però come la sospensione dell’efficacia delle norme che impongono ai comuni non capoluogo di provincia di avvalersi delle cosiddette centrali di committenza possa agevolare il raggiungimento dei suddetti risultati, né come l’eliminazione fino al 31 dicembre 2020 dell’obbligo di scegliere i commissari di gara tra gli esperti iscritti all’albo istituito presso l’Anac e l’attribuzione della facoltà d’individuare i soggetti competenti all’interno delle stazioni appaltanti, possano rilanciare gli investimenti e facilitare l’apertura dei cantieri.

 

L’intento dell’esecutivo sembra essere invece quello di accelerare la circolazione di denaro fine a sé stessa se è vero che l’emendamento che dovrebbe integrare il testo del decreto prevede che le pubbliche amministrazioni possano avviare le procedure d’affidamento di lavori e servizi pubblici anche in presenza di finanziamenti limitati alla sola attività di progettazione e in assenza dei fondi necessari alla realizzazione che saranno assegnati in seguito.

 

In controtendenza rispetto alla più volte sbandierata esigenza di semplificare le procedure amministrative sembra essere, poi, la previsione di un collegio consultivo tecnico con funzioni di assistenza per la rapida risoluzione delle controversie le cui decisioni, tuttavia, non avranno natura transattiva senza il consenso di tutte le parti in causa.

 

Sacrificata anche l’esigenza di salvaguardare stringenti controlli di legalità sui subappaltatori che d’ora in poi potranno realizzare il 40 per cento dell’importo complessivo dei lavori (prima era il 30 per cento) senza che la stazione appaltante sia tenuta a conoscerne previamente l’identità anche nel caso in cui si fosse in presenza di attività maggiormente esposte a rischi d’infiltrazione mafiosa e senza che l’impresa offerente abbia l’obbligo di dimostrare essa l’assenza di motivi d’esclusione in capo ai subappaltatori.

 

Il governo intende aumentare notevolmente il livello di discrezionalità dell’azione di politici e amministratori dei comuni ed ha previsto che per gli affidamenti di importo pari o superiore a 40.000 euro e inferiore a 150.000 euro per i lavori e a 209.000 euro per forniture e servizi, si debba dare corso all’affidamento diretto mentre attualmente il Codice degli appalti dispone che sino a 200.000 euro debba svolgersi necessariamente la procedura negoziata previa consultazione. 

 

Evidente la convinzione del governo è che le procedure che comportano la pubblicazione di un bando di gara aperto a tutti gli operatori economici rappresentino degli ostacoli alla realizzazione delle opere pubbliche.

 

L’emendamento al decreto prevede, infatti, che gli affidamenti di lavori d’importo pari o superiore a 150.000 euro e inferiore a 350.000, debbano avvenire tramite procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara e solo previa consultazione, ove esistenti, di almeno dieci operatori economici, mentre quelli di importo pari a 350.000 euro e inferiore a 1.000.000 debbano svolgersi previa consultazione, ove esistenti, di almeno quindici operatori economici, ma sempre a seguito di procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara.

 

Oggi il Codice degli appalti dispone, invece, che per affidamenti superiori a 200.000 e fino alle soglie comunitarie si debba fare ricorso alla procedure aperte, nel corso delle quali qualsiasi operatore economico interessato può presentare un'offerta in risposta a un avviso di indizione di gara.

 

L’intento del legislatore d’evitare la pubblicazione dei bandi di gara al fine di ridurre il numero dei partecipanti che abbiano diritto a presentare un’offerta appare, tuttavia, sin d’ora frustrato da recentissimi pronunciamenti della giurisprudenza amministrativa secondo i quali non può negarsi ad un operatore economico non invitato ad una procedura negoziata senza pubblicazione del bando, che sia comunque venuto a conoscenza di una simile procedura e che si ritenga in possesso dei requisiti di partecipazione previsti dalla legge di gara, di presentare la propria offerta (TAR Catania, sentenza n. 1380 del 4 giugno 2019).

 

Degno di considerazione, all’interno di questo quadro che complessivamente suscita non poche perplessità in ordine all’efficacia delle misure in corso d’adozione, appare invece l’intento del legislatore di sostituire le linee guida dell’ANAC con un regolamento unico recante disposizioni di esecuzione, attuazione e integrazione del codice.

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