F-35 stealth fighter (foto LaPresse)

Quegli otto miliardi per la Difesa che Di Maio tiene bloccati al Mise

Valerio Valentini

Non solo gli F-35. Il veto politico del M5s danneggia l’industria e la sicurezza nazionale. L’ex compagno di liceo ora consulente

Roma. Sbloccare, sbloccare tutto. Questo, da giorni, è il mantra ripetuto da Luigi Di Maio: aprire i cantieri, riscrivere il codice degli appalti, investire finalmente i “soldi nascosti tra le pieghe del bilancio”. Sbloccare tutto, insomma, tranne gli investimenti per la Difesa: perché, ovviamente, nella malintesa utopia pacifista del M5s qualsiasi euro destinato a rafforzare il settore militare coincide con un tradimento dei sacri valori che, specie sotto elezioni, è meglio evitare. Ed è per questo che, sulla scrivania del ministro dello Sviluppo economico giacciono ancora privi di firma gli atti con cui si potrebbero iniziare a investire, a partire da quest’anno, circa otto miliardi. Spese non autorizzate, lasciate nel limbo delle scartoffie non smaltite dallo staff di Di Maio, e in particolare da Carmine America, compagno di scuola del capo grillino ai tempi del liceo Imbriani di Pomigliano e quindi promosso a consigliere per la Sicurezza e gli Affari esteri a Via Veneto.

   

Si era iniziato, già nel settembre scorso, col veto sull’acquisto dei missili Camm-Er, mezzo miliardo che il ministro Elisabetta Trenta, cinque stelle pure lei, si era permessa di richiedere a Di Maio, finendo per questo con l’essere trattata a male parole e liquidata con un laconico “non se ne parla”. Poi fu la volta dello stop al progetto, ritenuto “inutilmente faraonico”, del Pentagono italico, che prevedeva di radunare tutti gli stati maggiori delle forze armate dalle parti di Centocelle.

  

Sembrarono eccezioni. E invece divenne la prassi: ogni volta resistenze, ogni volta dinieghi. Si finì così, nel dicembre scorso, a deliberare in ritardo lo sblocco di circa 2,5 miliardi, con atti respinti dal vaglio preventivo della Corte dei conti perché arrivati fuori tempo massimo per poter fare riferimento alla legge di Bilancio precedente. E ora, su altri cinque miliardi e più, già stanziati, semplicemente permane l’opposizione grillina. Un ostruzionismo che sta producendo gravi ripercussioni sull’intero sistema industriale, con le imprese del settore, italiane e non solo, che rischiano di non vedere pagate le proprie commesse. E’ il caso delle navi Fremm, ad esempio, o degli aerei M-345, per cui le ditte costruttrici hanno già acquistato i componenti dai fornitori ma non hanno al momento la garanzia di poter rivendere il prodotto all’aeronautica militare. E lo stesso vale per dei nuovi sistemi di radar già richiesti dalla Difesa e addirittura per la manutenzione degli aerei di stato, che procede con sostanziale regolarità pur non essendo del tutto retribuita. Perfino sull’assunzione di nuovo personale nelle strutture governative c’è, da tempo, una grossa incertezza.

   

Tutto paralizzato, in attesa che passi la scadenza delle europee del 26 di maggio. Uno stallo che comincia a irritare, e non poco, gli alleati e i fornitori stranieri, come si è visto nel caso del ritardato pagamento – 389 milioni, per ora – degli F-35 all’americana Lockheed Martin. Giuseppe Conte alla fine, per evitare figuracce internazionali, giovedì scorso ha provveduto a dare il via libera al pagamento, annunciando però una generale revisione della spesa dell’intero comparto, “in modo da assicurare che le prossime commesse siano effettivamente commisurate alle nostre strategie di difesa”. Ieri la Trenta, consapevole che oltre alla questione industriale il rallentamento degli investimenti nel settore militare comporta rischi per la sicurezza interna e la reputazione internazionale del paese, ha ricordato che le nostre forze armate “sono finanziate in modo non adeguato”, come a voler ribadire che, più di tanto, non è possibile fare i parsimoniosi. Ciò che, d’altronde, vanno ripetendo al ministro, ormai da mesi, i consulenti della Difesa, che di recente hanno evidenziato come i carri armati effettivamente operativi, al momento, non sono che un ottavo del totale. “Oggi come oggi – si lamentano nei corridoi del ministero – faremmo fatica a gestire in autonomia una missione di peacekeeping in giro per il mondo”.