Andrea Romano (foto LaPresse)

“Non dobbiamo avere paura del voto anticipato”, ci dice Romano

David Allegranti

“Non possiamo essere il junior partner di un governo con il M5s. Così rischiamo la fine di Alfano”, avverte il deputato del Pd

Roma. Dice Andrea Romano, deputato del Pd e direttore di Democratica, che “non dobbiamo avere paura di andare al voto”. Anche se, spiega, “è chiaro che questa eventualità sarebbe anzitutto il risultato del fallimento dei presunti vincitori, 5 stelle e Lega. Insomma, non chiediamo il voto ma non ne abbiamo paura. E a proposito di bluff: Luigi Di Maio si rivela un pessimo giocatore di poker con la sua minaccia farlocca del ritorno alle urne. Dice di avere quattro assi ma come recita il poeta De Gregori sono di un colore solo”.

 

Insomma, “nessuno qui può essere ricattato, certamente non il Pd. E anche ammesso che un voto ravvicinato potrebbe metterci in difficoltà, che cosa sarebbe più arduo? Votare adesso, sulla base di una coerenza tenuta per anni, o fra due o tre dopo aver partecipato come junior partner di un governo che farebbe male all’Italia e al Pd? Insomma io vedo tanti rischi nell’alleanza M5s-Pd. Uno di questi è il rischio Alfano, che abbandonò il suo terreno di gioco per aderire a uno in cui era il junior partner. Una scelta non condivisa dai suoi elettori. E infatti il partito di Alfano è scomparso”.

 

Ma il Pd non dovrebbe avere senso di responsabilità e accettare il confronto con i Cinque stelle? “Dipende che cosa intendiamo per responsabilità. Oggi l’Italia non è nelle condizioni del 2011 o del 2013, quando il Pd partecipò a un governo gestito insieme ai suoi avversari storici con il paese sull’orlo del baratro. Grazie alla nostra azione, l’Italia non avrà raggiunto il paradiso economico però un presente solido sì. Aggiungo che svendere il Pd per consegnarlo mani e piedi al partito che ha dimostrato di avere una visione radicalmente diversa dalla nostra sarebbe irresponsabile nei confronti di quegli elettori che non si riconoscono nelle ricette dei 5 Stelle, alle quali noi siamo alternativi. D’altronde, Veltroni fondò il Pd per dar forza alla democrazia dell’alternanza. Andare al voto, se costretti dal fallimento dei populisti, significherebbe preservare il valore di un’alternativa al populismo sovranista. Rivolgerci agli italiani significherebbe chiedere quale tipo di ricetta è preferibile”.

 

Ma la situazione, con questa legge elettorale, non rischierebbe di restare la stessa? “Ho letto con sconcerto il direttore del Corriere, che a suo tempo criticò Italicum e riforme istituzionali, sostenere senza alcuna autocritica che preferirebbe una legge elettorale con il doppio turno. Il Pd l’aveva proposto, era l’Italicum che però è stato bocciato indirettamente dagli italiani con il referendum del 4 dicembre. Ovvio quindi che ci sarebbe questo rischio, anche se non credo che avremmo lo stesso scenario. E comunque credo che sarebbe preferibile rispetto alla prospettiva di un governo con i Cinque stelle”. Oltretutto, “come ha spiegato molto intelligentemente Giuliano da Empoli nella sua intervista al Foglio, non è che noi siamo al 35 e siamo noi a invitare gli altri a sedersi alla tavola del governo. Saremmo figli di un dio minore, con la minima possibilità di influenzare scelte di un governo retto dalla Casaleggio Associati insieme a Di Maio. Spesso mi si obietta che dovremmo usare del sano realismo politico. Ma secondo una rappresentazione realistica, il Pd è purtroppo oggi una forza di minoranza e al governo avremmo una posizione marginale, saremmo chiamati a subire scelte di altri o sopportare il peso dei fallimenti”. Quanto alla famosa ‘base del Pd’ e ai suoi pensieri, “segnalo un ragionamento di Umberto Minopoli su Democratica. La base del Pd è oggi molto diversa da quella di 20 anni fa, non è identitaria, di opposizione classica ma ha introiettato i valori alla base del riformismo. E’ la base che ha sostenuto le nostre riforme al governo. La scommessa di Leu era quella di parlare alla base tradizionale del Pd che, secondo loro, è stata tradita da Renzi: si è visto le cose come sono andate. Ma la cultura politica del renzismo, al di là di Renzi, è condivisa dalla base del Pd”. 

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.