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FATE PIANO!

Claudio Cerasa

Non solo il Def. Buone ragioni per non avere fretta di formare un governo

Il 10 novembre del 2011, il Sole 24 Ore, come ricorderete, aprì la sua edizione con un titolo a caratteri cubitali, ispirato a una famosa prima pagina del Mattino di Napoli successiva al terremoto dell’Irpinia. Un titolo formato da due parole: “Fate presto”. L’indicazione offerta con toni imperativi dal giornale di Confindustria era quella di dare al più presto un governo al nostro paese in una fase effettivamente complicata per l’Italia, con i mercati impazziti, le Borse in preda al panico e lo spread alle stelle.

 

Sette anni dopo, con un altro governo da formare e una situazione politica ancora incerta, ma non drammatica, l’idea del “fate presto”, l’idea cioè che un governo vada fatto in fretta, l’idea che il paese non possa permettersi “un passaggio a vuoto”, l’idea che una maggioranza debba essere trovata a qualunque costo, in modo più o meno implicito vive nella cronaca politica quotidiana. E dal giorno successivo all’elezione dei presidenti di Camera e Senato, ovvero tra una settimana, buona parte del paese e della sua opinione pubblica inizierà a guardare in modo isterico l’orologio e a consultare in modo frenetico il calendario chiedendosi quanto diavolo ci voglia a dare al paese un governo che possa governare. Suvvia, sbrigatevi!

 

Se possiamo permetterci, però, oggi il titolo a caratteri cubitali che dovrebbe ospitare ogni giornale di buon senso dovrebbe essere un altro imperativo finalizzato a indicare all’unanimità un’altra priorità. Non “fate presto” ma, per carità, “fate piano”, fate pianissimo. Il ragionamento che ci suggerisce di consigliare a tutti di fare molto piano, di non avere alcuna fretta, di prendere il tempo che serve, è legato ad alcune ragioni che vale la pena mettere in fila. Il primo tema riguarda l’economia. Il fate piano, molto piano, potrebbe essere esteso anche all’idea che i partiti antisistema, una volta arrivati al governo, decidano di manomettere le due grandi leggi che hanno permesso all’Italia, negli ultimi anni, di ricominciare a crescere, la legge sulle pensioni e la legge sul lavoro, e che ovviamente si trovano in cima all’agenda programmatica dei partiti di protesta. Ma in realtà il fate piano, in questo caso, ha una ragione ancora più contingente.

 

Entro il 10 aprile, come è noto, il governo in carica, quello guidato da Paolo Gentiloni, dovrà elaborare il Documento di economia e finanza da presentare poi a Bruxelles entro la fine di aprile. Il Def, come si sa, è formato da due grandi voci. Una è quella che contiene la tabella di finanza pubblica a legislazione vigente, l’altra è quella che contiene la tabella di finanza pubblica programmatica. Un governo in carica senza avere una maggioranza in Parlamento non può (non deve) mettere becco sulla parte programmatica ma per quanto riguarda la parte relativa alla finanza pubblica a legislazione vigente le cose invece cambiano. E a oggi potrebbe essere interesse di tutti, anche dei partiti più lontani da Gentiloni, lasciare fare a questo governo il lavoro sporco e dare così la possibilità all’Italia di continuare a seguire una strada gradita ai mercati, limitandosi cioè a non stravolgere il quadro di finanza pubblica a legislazione vigente. I dati definitivi del 2017 e le previsioni messe a base della legge di Bilancio per il 2018 sono tutti o confermati o modificati in meglio (tra questi ultimi: indebitamento 2017; fabbisogno dei primi due mesi; prodotto interno lordo; livello del debito). La formula che l’Italia potrebbe seguire ad aprile è dunque simile a quella (di successo) seguita nel 2016 in Spagna tra un voto e l’altro: in assenza di una nuova maggioranza successiva alla elezioni, limitarsi solo ad aggiornare le stime tendenziali di crescita, di deficit e di debito, senza fissare obiettivi programmatici né strategie di politica economica (compreso, nel caso italiano, l’impegno a disinnescare gli aumenti di Iva e accise previsti nel 2019, sui quali dovrà decidere il prossimo governo, se mai ce ne sarà uno nuovo da qui alla fine dell’anno). Prendere tempo, senza fretta, senza isteria, senza forzare la mano per far nascere un governo a qualunque costo. E senza creare le condizioni per rendere artificiosa la nascita di un governo. Chiaro? Bene. Ora forse si dirà: il tempo, ok, ma per fare cosa? E qui arriviamo al secondo punto, più delicato, più politico.

 

Il fate piano, il prendersi il tempo che serve, il ragionare su questa legislatura pazza senza aggiungere isteria a quella già manifestata da molti elettori alle urne (a ripensarci, Dibba, sullo stato di molti italiani, non aveva tutti i torti) dovrebbe essere finalizzato a fare di tutto per provare a capire fino in fondo se è possibile o no far nascere l’unico governo naturale che avrebbe senso in questa legislatura: quello ovviamente tra la Lega di Matteo Salvini e il Movimento 5 stelle di Luigi Di Maio. Ragionare a lungo, il più possibile, e con calma, su questo governo, non mostrificandolo pur essendo un mostro, darebbe la possibilità di capire che in Italia il vero discrimine tra i partiti non è più quello tra chi è di destra e chi è di sinistra, e neppure tra chi è populista e antipopulista. Ma è quello tra chi è europeista e antieuropeista. E su questo punto purtroppo la simmetria tra la Lega e il M5s è evidente ed è giusto che emerga. Ma per farlo, appunto, serve tempo. Serve fare con calma.

 

I vincitori ovviamente sono loro, sono Di Maio e Salvini, e in questo senso il fate piano darebbe la possibilità a tutti, anche agli elettori, di alzare ogni velo di ipocrisia e di riconoscere che chi ha vinto le elezioni deve provare a governare con i vincitori e non con i vinti. Prendere tempo, inoltre, dare a un Salvini o un Di Maio la chiave per provare a far partire un governo avrebbe, se vogliamo, anche un formidabile valore pedagogico per il paese. La Lega sarebbe costretta ad ammettere che l’alleanza con Forza Italia era solo un’alleanza di facciata perché un partito antieuropeista di fronte a una prova di governo è portato ad allontanarsi dai partiti europeisti per accordarsi con gli omologhi antieuropeisti (tendenza Farage). Forza Italia, da parte sua, avrebbe la possibilità di capire una volta per tutte che i suoi punti di contatto oggi sono più con il Pd che con la Lega (e avrebbe anche la possibilità di capire che in caso di elezioni anticipate l’errore di riandare a braccetto con Salvini non andrebbe ripetuto). Il Movimento 5 stelle (come il Cav.) sarebbe poi costretto ad ammettere che i governi non eletti dal popolo sono una fregnaccia perché in Italia le elezioni politiche servono a eleggere i parlamentari – e per eleggere direttamente i presidenti del Consiglio sarebbero serviti sistemi come quelli combattuti dal Movimento 5 stelle: Italicum e monocameralismo. E allo stesso modo i Di Maio e i Casaleggio sarebbero a loro volta costretti ad ammettere che in una democrazia parlamentare per formare un governo senza avere la maggioranza bisogna sperare o che i parlamentari di altri partiti tradiscano il loro vincolo di mandato (ops) o che i leader di altri partiti accettino di considerare un compromesso qualcosa di diverso da un inciucio (ari-ops). Mai come in questo caso, dunque, prendere tempo non significherebbe perdere tempo. E la tecnica del fate piano darebbe anche la possibilità a tutti i protagonisti in campo di capire che per tornare a votare un governo non va fatto a tutti i costi (in fondo c’è sempre Gentiloni) mentre ciò che andrebbe fatto a tutti i costi prima di tornare a votare (anche senza un governo) dovrebbe essere un punto chiaro: un aggiornamento della legge elettorale finalizzato a dare al paese l’unico sistema che potrebbe produrre una maggioranza quasi certa: l’aggiunta di un doppio turno. Fare in fretta significherebbe voler fare un governo a tutti i costi senza capire che a tutti i costi va tentato invece l’unico governo naturale. Fare in fretta significherebbe poi voler tornare a votare senza far capire che l’unica legge che può evitare un altro 4 marzo è una legge che potrebbe riparare in parte il danno del 4 dicembre (il ballottaggio). Fare in fretta infine significherebbe non far capire agli elettori che votare alle elezioni non è uno scherzo, non è come il televoto, non è come “X-Factor”, ma implica delle conseguenze e le conseguenze sono quelle che vediamo oggi. Fare in fretta, per concludere, sarebbe un errore perché costringerebbe chi sta all’opposizione a suicidarsi politicamente (più di oggi), a creare maggioranze fuori dal mondo (il Pd con Di Maio o con Salvini?) e a regalare l’opposizione contro lo sfascio a un altro partito dello sfascio, alimentando così un pericoloso bipolarismo populista. Non è detto che prendere tempo, e fare piano, porti l’Italia a essere governata rapidamente dai partiti non di protesta (potrebbe essere persino il contrario). Ma è certo che non prendere tempo, e voler fare tutto rapidamente, rischierebbe di essere la strada più veloce per dare al paese un pericoloso papocchio di governo. In Belgio sono serviti 543 giorni per fare il governo Di Rupo e 136 per il governo Michel. In Olanda, 225 per il governo Rutte (Paesi Bassi). In Spagna 125 per fare il governo Rajoy (Spagna). In Germania 140 (e con il giusto tempo è nato il miglior governo possibile, con il miglior cancelliere possibile, sulla base non solo della stabilità ma di un grande programma europeo). In Italia sono passate solo due settimane. C’è tempo. Non fate presto. Fate piano. Conviene a tutti.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.